WADE MILLER
IL SEGNO DEL PAVONE
(Devil May Care, 1950)
1
Domenica, 10 settembre, ore 21,30
Uscì dall'atrio illuminato della chiesa e si affrettò verso il buio esterno, sperando che la donna dalla bocca rossa e insolente l'avesse atteso. Durante la conferenza s'era divertito a fissarla, unico volto del quale s'era occupato, tra i tanti annoiati, attenti o vuoti, e lei aveva restituito lo sguardo.
Ma ora gli ascoltatori non c'erano più e non c'era nemmeno la donna. L'uomo che era con lei, forse il marito, l'aveva condotta via. Si fermò sul sagrato, presso la bacheca delle affissioni, e imprecò, per sfogare il disappunto. Al di là del vetro gli annunci, compilati con lettere di plastica bianca, spiccavano sul fondo di feltro nero. Sotto il titolo fisso di Foro Libero del Northside, si leggeva: «Biggo Venn: soldato di ventura. Qual è il destino dell'India?» e di seguito la data di quella sera. Sotto c'era un pro-memoria: «Non dimenticate la merenda in campagna del 17 settembre; chiunque sarà il benvenuto».
Biggo pensò che la donna poteva averlo ritenuto troppo anziano. Ma gli riusciva difficile crederlo. L'aspetto era quello d'un uomo sano, prestante, non più giovane, ma certo nemmeno vecchio. Aveva preso l'abitudine di mentire a proposito della propria età, non ammettendo mai di aver passato la quarantina. Forse lo faceva anche per vanità, ma in parte si trattava di buon senso: nessuno vuole un soldato anziano.
La corporatura poi dava un'impressione perfino eccessiva di forza. Non era alto, e il petto ampio e le gambe leggermente arcuate lo facevano sembrare ancora più basso. In uniforme, qualsiasi uniforme, pareva più slanciato; ma quella sera, Cleveland, indossava un abito di lino a doppio petto, che, per quanto di buon taglio, lo rendeva ancor più massiccio.
Il suo volto non mostrava cicatrici. Aveva i lineamenti piacevoli e piuttosto comuni di un uomo che gusta la vita, mentre gli occhi, d'una tinta ambrata, lievemente strabici, erano quelli di chi la stima al suo giusto valore. Nella massa dei capelli color sabbia c'era qualche filo grigio, ma era difficile individuarlo. Aveva le mani grandi, con il dorso coperto da una peluria bionda, e i denti in buono stato, all'infuori di un molare rotto, che si notava quando rideva.
Ma in quel momento Biggo non rideva. S'era sentito certo che la donna dalla bocca rossa sarebbe stata lì. Senza di lei, invece, la serata si riduceva a quella noiosa conferenza, compensata con cinquanta dollari.
Qualcuno rise, alle sue spalle. Un mozzicone di sigaretta volò contro il vetro della bacheca e brillò prima di cadere ai piedi di Biggo. — Anche se avessi voluto conoscere i destini dell'India non mi sarei di sicuro rivolto a te — disse, una voce.
Biggo si girò e fissò l'uomo alto che gli stava davanti, illuminato dalle luci della chiesa. — Dunque finalmente hai imparato a leggere? — rise. Poi tese la destra. — Che cosa fai a Cleveland, Toevs?
— Perché? Cos'hai da dire contro Cleveland? Un giorno o l'altro bisogna pure ritornare a casa.
— È dal tempo di Marrakech che non ci vediamo.
— Già, e l'ultima cosa di Biggo Venn che ho visto è stata la sua schiena che s'allontanava al galoppo dalle baionette francesi. — Toevs posò gli occhi sull'annuncio e sputò, divertito. — Soldato di ventura, eh?
Biggo si limitò a sogghignare. Era contento di vedere l'amico, ma vagamente turbato dai cambiamenti che notava in lui. Poco tempo prima, forse soltanto un anno o due, Toevs era stato un uomo possente, pieno di vita. Ma la lunga esistenza avventurosa aveva finito con il fiaccarlo: gli aveva tolto la sua aria energica, incurvato le spalle, gonfiato l'addome, reso cascanti i suoi indumenti; gli aveva messo addosso quell'aria di miseria, quell'odore di rhum a buon mercato. E forse il destino aveva proprio voluto che Biggo incontrasse l'antico camerata, lì a Cleveland, così mal ridotto, e ci pensasse sopra; ma quell'idea gli dava uno strano senso di disagio.
— A quanto vedo la corda per impiccarti non è ancora stata fabbricata — riprese il vecchio. — Ma hai proprio detto al tuo uditorio che sei un soldato di ventura?
— L'ingresso era libero. Dovevi entrare, se volevi sapere che cosa dicevo. — In cuor suo, Biggo si chiese quanto gli avrebbe scroccato Toevs. Era certo che gli avrebbe chiesto dei quattrini. Scrollò le spalle: dopo tutto, il denaro è solo denaro e gli amici sono amici. Erano passati dieci anni dall'epoca di Marrakech, Daniel doveva avere superato da un bel po' la sessantina.
— Be' — continuò Toevs — ho un lavoretto fatto apposta per un soldato di ventura. Tanto facile che chiunque saprebbe farlo. — Era troppo ansioso: evidentemente si trovava proprio all'asciutto. Ma a Biggo non importava poi troppo: l'incontro col vecchio camerata gli faceva sentir meno la delusione provata nel non vedere la donna. — Si tratta di fare un viaggetto sino al Messico e di restarci un paio di giorni per ritirare del denaro. Nient'altro. Ho aspettato tutta la settimana che tu arrivassi: ho visto l'annuncio e mi sono detto...
— Capisco. E qual è il rischio?
— Che rischio, figlio d'un cane? Per te sarà una cuccagna. Guadagnerai molto di più che a trafficare armi di contrabbando, e con minor fatica, anche. Una testa dura come la tua...
Biggo rise. — Andiamo al mio albergo, dove c'è una bottiglia da scolare — propose.
— Benissimo — approvò Toevs. — Dammi un attimo per sbarazzarmi di lei, e...
— Lei? — Biggo seguì la direzione indicata dal pollice del vecchio e scorse la ragazza ferma accanto al lampione, all'angolo. Sulle prime pensò che si trattasse della donna dalla bocca rossa, ma poi vide che non lo era. Tagliò corto a quanto stava dicendo Daniel. — Non occorre che te ne sbarazzi — dichiarò. — Portala con te.
— Non so se con lei presente potremo parlare... — obiettò l'altro dubbioso. — Ma Biggo s'era già diretto verso la figura femminile in attesa e non gli restò che seguirlo, stringendosi nelle spalle.
Fece le presentazioni. La ragazza si chiamava Felicia, Era giovane, ma doveva averne viste tante. In quel momento, però, vedeva Biggo, e solo Biggo. Trattenne la mano di lui fra le sue, con intenzione. L'uomo non vi fece caso: i capelli rossi di Felicia probabilmente erano tinti, ma le curve invitanti del suo corpo erano autentiche: il soprabito, aperto su un aderente abito di maglia, le lasciava scorgere con generosità.
— Stiamo per andare nella mia camera a bere qualcosa — disse Bingo, soppesandola con lo sguardo. — Vuoi venire, bellezza? Sarai al sicuro.
— Se volessi essere al sicuro andrei alla Protezione della Giovane — ribatté la donna. — Comunque, non mi piace lasciar bere da sole le persone. E a voi piace, Biggo? — S'erano capiti a vicenda immediatamente.
Toevs era occupato a chiamare un taxi. Montarono e diedero l'indirizzo dell'albergo. Felicia aveva preso posto tra i due uomini. Le sue gambe snelle premevano quelle di Biggo. Il suo profumo a buon mercato invase la vettura e l'uomo pensò che, dopotutto, la serata poteva anche essere divertente.
Se Toevs aveva qualcosa di speciale da dire, preferì non accennarvi durante il percorso. Le sue mani si agitavano nervosamente. Non si calmò finché non raggiunsero la stanza di Biggo e la porta fu richiusa a chiave dietro di loro. Si guardò intorno, mentre l'amico si toglieva giacca e cravatta.
Felicia sfilò il soprabito, e con due calci gettò lontano le scarpe; si lasciò cadere sul letto e si distese comodamente, rassettandosi la gonna attorno alle gambe. — Ehi, dico, è un posto di lusso questo — osservò, con uno sguardo ammirato alla tappezzeria.
— Come mai ti sei messo a far conferenze, Biggo? — domandò Toevs.
— Cose che capitano, Dan. Dopo la faccenda ai Caraibi (ero con quelli che cercavano di mandare all'aria Trujillo)...
— Cuba vi ha fermato, eh?
— Cuba, e quei quattrini che non sono mai arrivati.
Felicia allungò una gamba inguainata di nylon, esaminando una smagliatura nella calza. La punta del piede si tendeva verso Biggo. L'uomo distolse gli occhi con difficoltà. — Qualcuno dei ragazzi è ancora lì — riprese. — Paget, per esempio, e Sammy Winter. Li hai conosciuti, vero? Hanno preso anche me, ma possedevo qualcosa che faceva gola al comandante, sicché mi sono comperato la libertà e una volta a New York ho combinato questo giro con una specie d'agente. Si tratta di fare due o tre discorsi alla settimana.
— Magnifico, semplicemente magnifico — tubò Felicia. — Guadagnate molto, in questo modo, Biggo?
— Abbastanza da potermi divertire. — L'uomo sedette alla scrivania e vergò un indirizzo su una busta. — Peccato che l'agente si becchi il venti per cento delle entrate. — Infilò nella busta un biglietto da dieci dollari, la chiuse e la mise dove nessuno dei suoi ospiti avrebbe potuto scovarla. — In complesso non c'è male — concluse.
Guardò Felicia; lei socchiuse gli occhi con aria languida e annunciò: — Vorrei bere un goccetto.
Biggo tirò fuori la bottiglia di bourbon. Nel bagno trovò dei bicchieri. Giudicò che la ragazza aveva una voce insopportabile. Comunque, non era alla sua conversazione che lui s'interessava. — E tu che cosa fai di bello? — domandò a Toevs.
Prima di rispondere l'altro attese d'aver vuotato il bicchiere. — Be', al momento sto pensando di andare in Cina — dichiarò.
Felicia commentò la frase con un'esclamazione. Biggo disse che era una buona idea e bevve alla salute della Cina, ma non si lasciò ingannare neanche per un attimo. Per Toevs quello era stato un modo come un altro per dire che non aveva alcuna prospettiva.
La ragazza prese la piccola Bibbia rilegata in pelle che se ne stava aperta su uno dei guanciali. — Per l'amor del cielo! — squittì. — Che cosa ci fa questa sul letto? — La cosa le parve buffa. Guardò Biggo. — Prima la chiesa e adesso questa? Siete un tipo straordinario.
Toevs rammentò: anche lui rise. — Vedo che hai sempre l'abitudine di portare con te il buon Libro — osservò. — Mi sembra lo stesso che avevi allora. Non sei ancora diventato santo?
— Niente da fare. La santità è roba da vecchi caproni con un piede nella tomba come te — scherzò Biggo. — Bei combattimenti, in quel libro — riprese, con serietà. — Gli ebrei erano in gamba, se appena appena avevano un comandante decente. È una lettura interessante.
Anche quella frase parve buffa, a Felicia, ma Toevs sospirò. — Ah, noi ne abbiamo conosciuti di tipi in gamba, vero Biggo? — Assaporò le sue memorie in silenzio, insieme al whisky. — Quanto tempo è passato? — soggiunse dopo qualche attimo.
— Da Marrakech? Dieci anni, penso. Forse meno.
— Dieci anni? — ripeté la ragazza, come se avessero parlato dell'eternità. — Accidenti, ma...
— Non può essere — corresse in fretta Toevs. — Non può essere, dal momento che io sono ancora in forma, lo vedi anche tu. Stagionato ma sempre in gamba.
— Davvero: non sei cambiato affatto, Dan — ammise Biggo. Gli dispiaceva d'aver detto che aveva un piede nella tomba.
— Anche se ho compiuto i cinquanta, due altre guerre me le posso sempre fare.
Toevs mentiva a proposito dell'età ma Biggo non pensò nemmeno a correggerlo, specialmente data la presenza della ragazza.
— Quando vedo i giovincelli che arruolano di questi tempi... — e il vecchio scosse il capo con aria scettica.
Bevvero a qualcosa di ormai finito, poi presero a parlare dei vecchi giorni. Pareva che Toevs non avesse più nessuna fretta di fare la sua proposta. Si pavoneggiava e ostentava arie di uomo importante, sfruttando l'opportunità. Biggo non cambiò discorso. Sedette sul letto e Felicia gli si accucciò accanto, appoggiando la testa sulle sue ginocchia. Era calda come una gattina e lui le sfiorò la schiena con la mano.
I due ex camerati brindarono a molti luoghi dal nome esotico, gustandone il sapore, più noto alle loro labbra di quello dei loro paesi natali. Poi Biggo accennò a un avvenimento che risaliva ai tempi di Marrakech. Un episodio finito nel sangue. — Se penso a quei venti arabi sto ancora male — borbottò. — Io ne ero responsabile, Dan. Lui non avrebbe dovuto far loro quello che ha fatto.
— Non l'ho conosciuto. Dopo, l'hai più visto?
— Ho sentito dire che era in Bolivia. Ma un giorno lo incontrerò e gliela farò pagare. È una faccenda che devo sistemare, quella.
Felicia si agitò, annoiata. — Oh! Dopotutto non erano che arabi.
Toevs scrollò le spalle. — La guerra è guerra e non importa se gli uomini vengono uccisi a sangue freddo o in combattimento. In un modo o nell'altro, si vede che dovevano morire.
— Proprio così, tesoro. — La ragazza allacciò le braccia intorno al collo di Biggo e cercò di attrarlo a sé. — Non pensare agli arabi, adesso. Pensa a me — bisbigliò.
Toevs si schiarì la gola. — Come stai a quattrini, Biggo? — domandò.
L'altro si lasciò curvare verso la giovane bocca dipinta. — Qualcosa posso dartela — rispose.
Dan sbuffò, con dignità. — E credi che sia venuto fin qui a rammentare i vecchi tempi per poi tirarti una stoccata? Volevo sapere se ti piacerebbe guadagnare un bel po' di soldi.
— Baciami, Biggo, baciami — sussurrò Felicia, muovendo appena le labbra.
— Ebbene? — sollecitò Toevs.
— Finora non ho mai detto di no a una buona proposta — mormorò Biggo, senza guardare l'altro. Sfiorò leggermente le labbra che gli si offrivano.
— Su, su — riprese Toevs, con impazienza. — Queste sono cose importanti. — Biggo si svincolò da Felicia e si alzò. La ragazza gli mormorò qualcosa all'orecchio, poi tornò a sdraiarsi, imbronciata. — Bimba — riprese il vecchio — dobbiamo parlare d'affari. Va' ad aspettarci da qualche parte: in bagno, per esempio. E fai scorrere l'acqua.
Lei guardò Biggo e si strinse nelle spalle, poi si lasciò scivolare giù dal letto, con una esibizione di calze e biancheria. — Non metteteci troppo — borbottò, e andò verso il bagno, portando con sé un bicchiere pieno di whisky. Poco dopo si sentì l'acqua scrosciare: la ragazza non poteva udire ma Toevs parlò lo stesso a bassa voce. — Hai mai sentito nominare Tom Jaccalone? — incominciò.
Biggo ci pensò un attimo poi disse di no.
Toevs si frugò in tasca e ne tolse un ritaglio stampato che gli tese in silenzio. Era stato tolto da un giornale di vecchia data ma non era troppo sciupato: probabilmente Toevs l'aveva preso da una raccolta in qualche biblioteca.
Biggo osservò la fotografia di Tom Jaccalone che usciva dal Palazzo di Giustizia scortato da due poliziotti. Era un tipo basso, calvo, con il naso adunco. A quell'epoca era stato condannato per estorsione. Prima di cadere in disgrazia aveva tenuto sotto controllo quasi tutte le bische della costa; e prima di far fortuna era stato un povero ragazzo, figlio di immigrati.
Biggo fece per restituire il ritaglio, ma Toevs lo fermò. — Tienilo.
— Perché?
— Ascolta. Questo Jaccalone è stato al fresco per circa due anni, poi l'hanno rimandato al suo paese d'origine come straniero indesiderabile. Ma il suo paese non era fatto per lui, così è tornato ad attraversare l'Oceano e si è stabilito nel Messico, in un ranch del sud. Da allora è vissuto laggiù. Non è semplice mettersi in contatto con lui.
Biggo annuì, bevve un altro whisky e ci meditò sopra, ma non era Jaccalone l'oggetto dei suoi pensieri. — Di' un po' — incominciò — t'ho mai raccontato di quella volta, nello Yucatan, quando la moglie dell'Alcade...
— No. Stammi a sentire: Jaccalone vuol tornare in questo paese.
— Benissimo. Posso farlo rientrare. Chiunque può riuscirci. Quanto è disposto a spendere?
Toevs scosse il capo. — Vuole ritornare legalmente. Ha un mucchio di denaro impegnato in vari affari, negli Stati Uniti. Inoltre, un certo Silver Magolnick, che un tempo era il suo braccio destro, l'ha sostituito nel controllo delle bische. — Si batté il pollice contro il petto:
— Per mio mezzo Jaccalone può tornare in modo legale. C'è del denaro da guadagnare, Biggo, e una parte potrebbe toccare a te. T'interessa?
— Dipende. — Biggo si distese sul letto, dov'era stata Felicia. La trapunta era ancora calda. — Continua a parlare, Dan.
La storia era semplice. La condanna di Jaccalone era stata emessa in seguito a un'imputazione per estorsione, su denuncia presentata da un certo George G. Noon, proprietario d'un locale notturno. Dopo il verdetto Noon era scompaso. Affinché montasse tutta la faccenda, Silver Magolnick gli aveva dato di che vivere come non aveva vissuto mai. Ma ben presto Noon aveva esaurito il denaro e con esso la salute, e aveva passato i suoi ultimi anni in una modesta pensione di Gary, dove Toevs lo aveva conosciuto.
Il vecchio fece una pausa, fissò l'amico, poi continuò adagio: — Strano pensare alle cose che possono rodere l'anima di un uomo. Nel tuo caso si tratta della fine di quei venti arabi; per George Noon si trattava del tiro giocato a Jaccalone. Intendiamoci: Jaccalone è un bastardo della peggior specie, ma Noon l'aveva sulla coscienza. Be': prima di morire ha scritto di suo pugno una confessione. Una confessione regolare e legale, stilata in punto di morte. E io l'ho qui in tasca, Biggo.
Si appoggiò alla spalliera della seggiola, con orgoglio, e si versò da bere come se la bottiglia fosse stata sua.
— La confessione rende illegale il verdetto — commentò Biggo — e illegale, di conseguenza, anche l'espulsione. Ora parla del denaro.
— Ventimila dollari quando lo scritto di Noon verrà consegnato. Sono riuscito a mettermi in contatto con Jaccalone, per lettera.
— Dove avverrà la consegna? E il pagamento?
— A Ensenada. Sai dov'è? A sud di San Diego, in California, a cento chilometri dal confine. Ho scelto Ensenada nel caso Jaccalone voglia venire di persona. Ma, secondo quanto ha scritto, pare intenda mandare un incaricato. Ensenada, poi, è abbastanza vicina al confine, nel caso tenti qualche trucco.
— E se fosse invece Magolnick a tentarlo? Senza dubbio Noon nella confessione avrà usato più volte il suo nome. Se fossi al posto di Jaccalone avrei ammazzato Magolnick.
— Giusto, ma dàgli tempo. Che cosa dovrebbe saperne, Magolnick, di questa mia carta? — Toevs pronunciò la frase quasi perorando. — Jaccalone sistemerà la cosa in seguito. Vuoi incaricarti di portare la confessione a Ensenada, Biggo?
— Perché proprio io?
— Siamo amici. Non abbiamo combattuto insieme?
Biggo rise, facendo tremare il letto. — Per ventimila dollari, non c'è amicizia che regga.
— Un quarto sarà per te.
Biggo rise ancora, più forte. — Non dovresti buttar via così il denaro. — Si rialzò e andò ad aprire l'uscio, che aveva chiuso a chiave. — Caro Dan, non voglio sfruttarti. Porta via con te la tua pollastrella.
Toevs sembrava spaventato. — Si tratta solo d'un viaggio, dopotutto — protestò. — Dovrai soltanto andare a Ensenada e ritirare il denaro. Ti pare tanto difficile?
— E a te pare difficile startene seduto qui a Cleveland in attesa che io torni? Jaccalone mi sembra tipo da pensare a frugare il mio cadavere e prendersi la confessione di Noon. Perché dovrei correre questo rischio per la quarta parte del guadagno?
— Ma sono io che ho ottenuto la confessione e sistemato l'intera faccenda in modo che non vi sia alcun rischio.
— E allora finisci il lavoro da te. È tanto semplice! — Biggo spalancò la porta.
Toevs lanciò un'occhiata verso il corridoio. — Chiudi, Biggo, ti prego — mormorò. Mentre l'altro obbediva bevve un ennesimo bicchierino che calmò il tremito delle sue mani. — Senti — riprese poi — ho un amico, a Ensenada, un certo Zurico. È proprietario d'un bar. Ti metterà in contatto con l'inviato di Jaccolone. È già in attesa del segnale convenuto, che consiste in qualsiasi cosa riguardante i pavoni. — Ridacchiò a quel pensiero: praticamente tutti conoscevano la storia di Toevs e dei pavoni reali, una storia della sua gioventù a proposito d'una bellissima asiatica e d'un memorabile combattimento. Una bella storia che chiunque sarebbe stato fiero di poter raccontare sul proprio conto, e che era accaduta quasi come la narrava lui. — Dunque l'agente di Jaccatone darà il segnale, in un modo o nell'altro: questo riguarda lui. Da parte tua, dovrai soltanto scegliere il momento per trattare. Loro non sanno niente di te: potrai agire e ripassare il confine con il denaro prima che abbiano il tempo di pentirsi o di tentare qualcosa. Naturalmente non sono che dei gangster, ma in pratica non corri nessun rischio.
Biggo era rimasto vicino alla porta. — Metà e metà, prendere o lasciare — propose, brusco.
La faccia di Toevs s'incupì. — Suvvia, Biggo! Ricordati che abbiamo combattuto insieme! — Ma poiché l'altro tornava ad aprire, si affrettò ad aggiungere: — Sia come vuoi: metà e metà.
Biggo richiuse, versò dalla bottiglia gli ultimi due bicchierini, prendendo per sé il più scarso, poi la gettò in un angolo, con dispetto: sentiva un certo risentimento verso Toevs. Dieci anni prima l'amico l'avrebbe mandato all'inferno piuttosto di dividere a mezzo il profitto d'un affare semplice come quello. Ma da allora, evidentemente, aveva smarrito la sua sicurezza: aveva paura di andare a Ensenada, paura di giocarsi la possibilità d'un forte guadagno. Toevs era diventato vecchio. Quel pensiero rese amaro in bocca a Biggo il gusto del whisky. Provò difficoltà a inghiottire. Era infuriato con se stesso per aver calcato la mano, e infuriato con Toevs che s'era lasciato intimidire. Lo guardò con aria torva: — Va bene — decise. — Partirò domani.
Dan gli tese un foglio ripiegato. — Ecco il documento: abbine cura. — Non capiva perché l'altro fosse in collera. "Perché la debolezza suscita sempre la prepotenza?" — si chiese Biggo, ancora più seccato.
Per fugare il disagio estrasse il portafogli: — Avrai sostenuto delle spese — brontolò. — Poi le conteggeremo. — Aveva circa cinquecento dollari. Ne diede duecento a Toevs.
— Non sono venuto qui per scroccarti del denaro — protestò il vecchio. Ma le sue mani avevano ripreso a tremare.
Biggo biascicò qualche imprecazione in arabo. — Sciocco d'un olandese è un investimento, non capisci? Tu metti la confessione, io il denaro. Una cosa per ciascuno. — Quella frase parve ridare a Daniel parte della sua dignità.
Fornì a Biggo un numero telefonico di Cleveland, quello d'un bar, raccomandandogli di chiamarlo appena giunto a Ensenada, giacché c'era sempre la possibilità che si verificasse un imprevisto.
Tutto era stato detto. Toevs era pronto ad andare, ma esitava. Guardò la porta chiusa del bagno, da cui veniva sempre il rumore dell'acqua scrosciante. Biggo non voleva soppiantarlo: quella ragazza, Felicia, dopotutto era come tante altre. — Su, portatela via, Dan — borbottò.
Aprì l'uscio e dallo stanzino uscì una nuvola di vapore. Al suolo giacevano degli indumenti femminili, sparsi con noncuranza. Felicia era nella vasca: le sue braccia e le spalle emergevano da una montagna di schiuma. In mano teneva il bicchiere, dal quale beveva di tanto in tanto un sorso, soddisfatta.
Vedendo Biggo chiuse il rubinetto e sorrise. — Spero non te ne avrai a male, tesoro. È stato magnifico!
Toevs guardò da sopra la spalla di Biggo: dovette rendersi conto che la ragazza lo ignorava. — Be', penso che abbia deciso di star qui — mormorò, dopo un attimo di esitazione, sforzandosi di non dimostrare quel che provava.
Biggo chiuse la porta e cercò d'aiutare l'amico: a sembrare indifferente. Nell'uscire Toevs gli strinse la mano. — Bada a te, mi raccomando — bisbigliò.
— Ci ho sempre badato.
— Fa' attenzione a quello che combini — aggiunse l'altro in tono grave e s'allontanò con circospezione lungo il corridoio. Sembrava ancora più vecchio.
Biggo tornò nella camera. Scrisse il testo d'un telegramma che annullava il suo impegno per le ulteriori conferenze. La cosa non gli spezzò il cuore. Lesse la confessione di George G. Noon: c'era tutto quello che Toevs aveva detto, e per Silver Magolnick rappresentava senza dubbio la fine. Era una fortuna che questi non ne conoscesse l'esistenza. Tirò fuori il temperino e sollevò con cura il risguardo che rivestiva, all'interno, la copertina di pelle della bibbia. Infilò la confessione di Noon nell'apertura, poi tornò a incollare il risguardo. Il nascondiglio era invisibile.
Felicia non si faceva ancora vedere. Biggo si spogliò e si mise a letto, fumando. Dopo poco prese la Bibbia e l'aprì al Libro dei Re. Incominciò a leggere della battaglia di Ramoth in Gilead, ricostruendo la strategia da ciò che ricordava di quei luoghi. Più volte annuì con approvazione, e concluse ad alta voce: — Quella era gente che ci sapeva fare.
2
Mercoledì, 13 settembre, ore 14
S'imbarcò per Ensenada tre giorni dopo su un bimotore DC3 appartenente a una piccola linea di navigazione aerea. Mentre l'apparecchio superava San Diego e passava il confine, Biggo tenne d'occhio il sottile nastro nero che si snodava lungo la linea della costa, al di sotto. Per abitudine, cercò di rammentarne le curve, avvezzo com'era a rendersi sempre conto delle possibilità di fuga che ogni posto offriva.
Eccettuata la strada, lo scenario non gli interessava gran che. Era abituato a volare e aveva visto troppe zone semidesertiche per trovare interessante Baja California, nella Repubblica del Messico. Così passò il tempo a fare il bilancio delle spese e di quel che gli rimaneva in fatto di quattrini. Il biglietto aereo, i pasti e la nottata a Los Angeles, più i duecento dollari dati a Toevs avevano ridotto a duecento i suoi cinquecento dollari. Non erano molti, ma potevano bastare. Non aveva nessuna intenzione di fare il turista e voleva sbrigare la faccenda il più in fretta possibile.
Davanti a lui sedeva una giovane coppia in luna di miele la cui vista lo metteva a disagio; la ragazza non era niente di speciale e l'uomo doveva avere incominciato da poco a sbarbarsi. Biggo guardò accigliato dal finestrino, poi tornò a osservare i due, rifiutando d'ammettere d'invidiarli. Non gli piaceva l'aria di possesso con cui il giovane stringeva la mano della donna contro la propria gamba. Desiderò di aver portato con sé quella ragazza di Cleveland, come lei gli aveva chiesto. Strano, non riusciva nemmeno a ricordarne il nome.
Giunsero a Ensenada alle due in punto. Quando il portello venne aperto, il caldo pomeriggio estivo messicano si riversò all'interno, soffocante. Biggo uscì per primo e appena si fu guardato attorno incominciò a sudare. Poco distante c'era una piccola costruzione in mattoni, evidentemente un magazzino, e al di là della pista di atterraggio un'altra baracca. Alcuni apparecchi, in parte pronti al decollo, erano in attesa. L'aeroporto era diretto da due sorridenti messicani a cui serviva d'ufficio il sedile anteriore d'un vecchio Dodge.
Tutto preso a osservare dove si dirigeva la coppia in luna di miele, Biggo stava per dimenticare la valigia a bordo. Ancora non s'era abituato a portarla con sé e a far conto su un rifornimento di abiti, giacché di solito una borsa era più che sufficiente a contenere il suo rasoio, la Bibbia, le munizioni e la pistola automatica Beretta. Tornò a prenderla, e quando uscì per la seconda volta, il suo aspetto si avvicinava maggiormente a quello d'un turista.
La sua attenzione fu attratta da un uomo vestito di nero, seduto all'ombra d'un vecchio biplano Stinson. L'individuo lo guardava fissamente: aveva i capelli rossi e la faccia bovina. Biggo lo studiò per un attimo, ma poiché l'uomo non mostrava pavoni né cose che li concernessero, pensò che doveva trattarsi semplicemente di un funzionario della dogana, addetto al controllo dei passeggeri. Quando tornò a guardarlo, lo vide intento a osservare la coppia in luna di miele con la medesima attenzione.
Trovò un taxi e vi montò. — Portatemi in un posto dove ci sia della birra — disse all'autista lasciandosi cadere sul sedile. Poi gli fu spontaneo passare allo spagnolo: — Hace mucho calor, no?
L'aeroporto sorgeva all'estremità delle colline che delimitano la vasta baia di Ensenada, verso sud. Per raggiungere la città si diressero quindi al nord e quasi subito si trovarono tra le case, disposte per lo più a piccoli gruppi. Le strade erano larghe e polverose; solo quella principale, che conduceva alla zona commerciale, era selciata. Una squadra di scalpellini al lavoro s'interruppe e alzò il capo al passaggio dell'auto.
Biggo distolse lo sguardo dalle colline e osservò l'oceano scintillante. Batté sulla spalla dell'autista e gli chiese che cosa fosse il grande edificio bianco che sorgeva sulla spiaggia, simile al palazzo d'un sultano. Seppe così che si trattava del Riviera Pacifico, l'albergo dei milionari, orgoglio della città. Immerso nella sua oasi di verde, tra i boschetti di palme, pareva che si tenesse orgogliosamente lontano dalle altre costruzioni.
In complesso Ensenada era piacevole. Addossata alle alture dalla parte settentrionale, e tutta protesa verso la baia, emanava un'atmosfera di serenità e di pace. Tra le colline rallegrate da alti cespugli di salvia sorgevano bianche fabbriche di liquori tipici e piccole industrie. La zona commerciale si estendeva per una larghezza di tre isolati e una lunghezza di cinque. Biggo si fece portare su e giù dal taxi per orientarsi e farsi un'idea della topografia cittadina.
C'erano molti negozi di souvenir e vari bar, ma diversi da quelli di Tijuana o Juarez. La cittadina non era una trappola commerciale per turisti e nemmeno uno squallido villaggio indigeno. Era una città messicana media, un porto con meno di ventimila abitanti. Lungo i marciapiedi Cadillac e Buick nuove erano posteggiate vicino a vecchie Ford e a camioncini, e Biggo vide perfino un carretto tirato da un asinelio.
I negozianti indugiavano sulle soglie delle botteghe, osservando soddisfatti il loro mondo. Le strade erano quasi deserte. Faceva caldo. A un angolo, un gruppo di americani carichi di pacchetti e con le immancabili macchine fotografiche si guardavano attorno incerti sulla direzione da prendere.
Su tutto gravava un sentore dolciastro, ben noto a Biggo. Non un odore spiacevole, ma soltanto un odore straniero. L'aveva sentito in molti punti del globo e significava sempre un basso tenore di vita. Gli ingredienti che lo componevano erano troppo numerosi per poter essere classificati.
Poi, a un tratto, scorse l'insegna dipinta che recava la scritta ZURICO. Pagò l'autista e discese presso un monumento situato al centro di una piazza. Si sentiva a suo agio. Giungendo a Ensenada gli era parso di tornare a casa, e non sapeva spiegarsene il perché. Anche quello era un paese straniero dopotutto a lui completamente sconosciuto.
— Sono nato fuori della mia epoca — osservò ad alta voce. Aveva letto quella frase da qualche parte e l'idea gli era piaciuta. Guardò il viso calmo della statua: Miguel Hidalgo y Costilla, il piccolo prete che aveva fomentato la rivolta messicana, un secolo prima.
— Quelli erano giorni — continuò — io avrei dovuto vivere allora.
Il locale di Zurico si componeva di un'unica sala al pianterreno. Sopra c'erano degli appartamenti. Il retro dell'edificio si affacciava sull'imbarcadero di pietra e su un piccolo molo, frequentato da pescatori. Centinaia di bianchi gabbiani solcavano l'aria e altre centinaia sfioravano le acque della baia come creste d'onda improvvisamente mosse da vita propria. Alcuni battelli da pesca e qualche mercantile si dondolavano col favore della marea.
Biggo dimenticò Miguel Hidalgo per sbirciare la ragazza americana che saliva i tre gradini del bar di Zurico. I capelli castani erano tagliati corti e davano un'impressione di fresco. Indossava gonna e camicetta. Le gambe, le braccia e il collo erano nudi e bianchi: dovevano essere lisci al tatto. Mentre entrava, Biggo diede un'occhiata alle sue gambe. Prese la valigia e attraversò la strada.
Spinta la porta, girò intorno alla parete ricurva che impediva ai passanti di guardare all'interno del locale. Si trovò in una sala lunga e stretta; da una parte c'era il bar, con i relativi sgabelli; dall'altra erano disposti i tavolini e le seggiole. Un gatto selvatico imbalsamato fissava gli avventori da dietro il banco; lo fiancheggiavano due vecchi calendari che raffiguravano donnine nude. Il pavimento era di legno grezzo.
Quando Biggo si diresse al banco, i due messicani seduti vicino all'entrata gli lanciarono uno sguardo d'apprezzamento. Il barista era un ragazzo che probabilmente avrebbe dovuto essere a scuola. La ragazza americana confabulava con un giovanotto messicano dal viso sornione, provvisto di lunghe basette. Biggo era il sesto individuo presente.
Il giovanotto smise di chiacchierare con la ragazza, e sparì in un piccolo retrobottega, in fono al locale. Lei gli fece una smorfia alle spalle, come se fosse in collera per qualche motivo. Poi guardò Biggo. Tutti guardavano Biggo.
Lui non vi fece caso. Lasciò cadere con un tonfo la valigia, ordinò una birra e la bevve d'un fiato. Poi ne ordinò un'altra. I due messicani gli si avvicinarono reggendo uno un violino e l'altro una chitarra, e chiesero se gradiva un po' di musica. Biggo scosse il capo, ma mandò uno di loro ad acquistare i quotidiani locali. Nell'attesa ostentò di non interessarsi alla ragazza e alla fine lei si stancò d'attendere. Si alzò e gli andò a sedere accanto, davanti al banco. — Siete forestiero? — domandò.
Biggo la guardò. Non era bella, e in quel posto certo non sarebbe migliorata. Sul suo volto aleggiava un'espressione di disappunto, per il modo con cui erano andate le cose. Ma aveva una figura stupenda: niente da invidiare alle donnine dipinte sui calendari. L'uomo notò che il suo profumo non era dozzinale. — È la prima volta che vengo a Ensenada — rispose.
— Vi piace?
Gli occhi di Biggo espressero il suo pensiero in maniera eloquente. — Molto.
Lei continuò a sorridere, le rosse labbra lucenti.
Si chiamava Jinny. Non disse il cognome, e Biggo nemmeno.
Si spostarono a un tavolino: l'uomo passò dalla birra al whisky. Per la ragazza, invece, il piccolo barista preparò una specie di gazosa completata da una ciliegia.
Quando Biggo le chiese da quanto tempo lavorava in quel locale, Jinny parve delusa: — Oh, Dio, è così evidente? — mormorò.
— Be', non posso credere che ci sia qualcuno disposto a venir qui solo per bere con quel gatto rognoso.
La frase parve rialzare alquanto il morale della donna. — È un buco — ammise — ma Zurico ha grandi idee. Progetta di rimodernare il locale e di rialzarne il tono e io dovrei essere la prima innovazione: fungere da ospite, insomma.
Il messicano con basette li spiava dal retro in cui si era rintanato.
— È quello Zurico? — chiese Biggo.
— No, è suo fratello. Zurico è più grasso e più basso, e non è difficile da trattare. È più vecchio anche. Quest'oggi non s'è fatto ancora vedere.
Biggo scrollò le spalle, per il momento bisognava metter da parte gli affari.
— Sorridete, se non vi dispiace, e dite qualcosa — sussurrò Jinny. — Quell'animale deve pensare che faccio bene il mio lavoro.
Biggo sorrise e le posò la grossa mano sul ginocchio ma lei si sottrasse:
— Ehi, amico, non esageriamo — ammonì.
Il messicano tornò con due giornali e Biggo scorse rapido i titoli e le inserzioni per vedere se c'era qualcosa che riguardava i pavoni. Non c'era niente, ma forse il maggiore dei Zurico aveva già visto il segnale per la città.
— Volete che batta in ritirata? — fece Jinny dopo qualche minuto, stanca d'essere ignorata.
— Una cosa alla volta, tesoro. Che programmi avete per stasera?
— Perché? Non c'è nessun film interessante, in città?
— Conoscete un albergo decente?
Biggo pensava che l'amarezza della ragazza era commovente.
Lei guardò con intenzione la sua valigia, acquistata di seconda mano: — Potete sempre prendere un appartamento al Riviera Pacifico — insinuò. — Partono da un minimo di sedici dollari al giorno.
— Sono qui in incognito — ribatté Biggo ammiccando. Non era troppo lontano dalla verità, ma finse di scherzare.
— Non voglio dare nell'occhio. Voi, dove abitate?
— I miei sette fratelli, uno più grosso dell'altro, non hanno camere in soprannumero, mi dispiace. Perché non provate all'Hotel Comercial? È qui nella strada, due isolati più in giù. È un buon albergo.
A Biggo pareva di leggere ciò che passava nella mente di lei. Lo aveva classificato per un marito in vacanza. Ordinando delle altre bibite le lasciò vedere, con noncuranza, la mazzetta di banconote che teneva nel portafogli: faceva ancora un certo effetto.
Lei divenne più amichevole. — Cosa fate di bello a Ensenada, Biggo?
— Dov'è quel Zurico?
— Avete intenzione di comperare il locale?
— Magari, se voi siete compresa nell'arredamento. Ho da fare a Zurico una proposta che potrebbe interessarlo, se davvero ha la smania dei miglioramenti.
— È un ambizioso. Che cosa vendete?
— Pavoni — affermò Biggo, e osservò la faccia di Jinny. — Ditegli che sono passato di qui.
La ragazza restò indifferente. — È titolare d'un bar, non d'uno zoo — replicò. — Comunque, cosa ne fate, voi, dei pavoni?
— Li allevo. — Biggo accennò al barista di portare al tavolo la bottiglia del whisky, per evitare d'ordinare continuamente. I viaggi in aereo gli mettevano sempre sete.
Il cliente prometteva bene: Jinny ne fu compiaciuta. — Mi state prendendo in giro, vero? — continuò. — Nessuno alleva pavoni. Non si trovano allo stato libero?
— No. Avete mai sentito parlare del cocktail del pavone? — Biggo rise.
Una bibita d'antico stampo, con una penna di pavone dentro. Parlava a casaccio, seguendo l'ispirazione: forse la ragazza poteva ricordarsi di qualcosa. Ma Jinny rimaneva fredda: evidentemente Zurico non aveva segnalato la faccenda dei pavoni ai suoi dipendenti.
Lei rise. Era piacevole vederla ridere. Aveva la bocca grande, tumida, non adatta a restare seria. Adatta invece a essere baciata. L'uomo decise che in serata si sarebbe accertato di quel particolare.
— Un mercante di piume! — esclamò Jinny. — Nient'altro che un mercante di piume.
Qualcuno gridava all'esterno, dalla parte dell'imbarcadero, costringendoli ad alzare la voce per intendersi.
— Zurico potrebbe far fare dei ventagli e offrirli alle clienti: ho delle idee straordinarie — riprese Biggo.
— Oh, lo credo proprio!
— È soltanto la legge della domanda e dell'offerta. Io ho le piume, e se Zurico ha buon gusto le comprerà.
Fuori il baccano continuava. I suonatori messicani deposero gli strumenti sul bancone, il ragazzo lasciò il bicchiere che stava asciugando; il fratello di Zurico sbucò dalla tana e tutti si affrettarono verso l'esterno. Scomparvero, attraverso la porta posteriore.
— Ehi, che cosa succede? — chiese Jinny.
Anche Biggo era incuriosito. Tra le grida aveva colto qualche parola e una di queste era muerto. Muerto. Morto.
Decise di andare a vedere. Finì il suo whisky e sollevò la valigia. — Ci vediamo, bellezza — salutò.
Ma si fermò. Tra i pali che reggevano il pontile, c'era una striscia di sabbia che ancora la marea non aveva coperto; lì attorno s'era radunato un gruppo di uomini. C'erano il fratello di Zurico, il barista e i musicanti, e altri che Biggo non aveva mai visti. Uno teneva ancora in mano la canna da pesca. Biggo guardò dove tutti guardavano, alla cosa distesa goffamente sulla rena.
Era il corpo d'un uomo, le mani legate dietro la schiena. L'abito scuro che indossava era impregnato di sabbia e di salsedine. Evidentemente era stato da poco gettato sulla spiaggia, dalla marea, o rinvenuto su qualche banco di sabbia. Gli avevano sparato un colpo in testa.
E quando Biggo si rese conto che l'uomo, in vita, doveva essere stato basso e grasso, incominciò a capire a chi apparteneva la voce che dominava le altre, in quella babele di grida e di lamenti. La voce continuava a ripetere "Hermano mio.'" fratello mio. E chi gemeva così era il più giovane dei Zurico.
Biggo fissò il cadavere con ansietà. La maniglia bagnata di sudore della valigia gli si gelò nel palmo. Istintivamente strinse il bagaglio, che conteneva la preziosa Bibbia, come per rassicurarsi perché aveva scorto lo strano oggetto infilato all'occhiello della giacca del morto. Lunga e sciupata, la penna di pavone brillava ancora al sole, con le sue tinte azzurre e bronzo.
Biggo grugnì: sull'imbarcadero, intorno a lui, si stava radunando una vera folla. Già si udiva la sirena dell'auto della polizia. Incominciò a indietreggiare un passo dopo l'altro, lasciando che gli altri lo superassero, gli si accalcassero davanti. Quando, infine, si trovò ai limiti dell'assembramento, si volse con indifferenza e si allontanò.
3
Mercoledì, 13 settembre, ore 16,30
Non era stato il cadavere di Zurico a impressionare Biggo. Aveva troppo spesso visto morire intorno a sé gente conosciuta e a volte amata. Ma la presenza della penna di pavone lo preoccupava.
Al momento non ci aveva pensato troppo: in lui l'azione veniva prima della riflessione, e l'uomo considerava questa una delle sue virtù. Gli occorreva una base d'operazioni. Si diresse verso l'Hotel Comercial e firmò il registro col nome di B. Venn, Los Angeles, California.
L'albergo era pulito, intonacato di scuro, con un portico che ombreggiava il marciapiede antistante. La camera assegnatagli al secondo piano era semplice ma linda e la finestra dava sul tetto del porticato e sulla strada principale, l'Avenida Ruiz.
Biggo gettò la valigia sul letto e l'aprì per assicurarsi che la Bibbia fosse ancora al suo posto. Visto che c'era, ve la lasciò e richiuse. Non disfece i bagagli, per molti motivi che non si fermò ad analizzare. L'importante, in quel momento, era telefonare a Daniel Toevs, a Cleveland e poiché la camera non era dotata di telefono scese a cercarne uno.
Il vestibolo era spoglio, con grandi finestre sull'Avenida Ruiz e una porta posteriore che s'apriva su un patio piastrellato. Non c'era cabina telefonica ma il direttore gli concesse d'usare l'apparecchio nel suo ufficio privato. Biggo diede il numero al centralinista di Ensenada e tornò di sopra, pensando che ci sarebbe voluto del tempo per avere la comunicazione.
Aprì la finestra e sedette sul davanzale, la schiena rivolta alla strada resa più fresca da vaste zone d'ombra. Guardò la valigia, sul letto, e fece una smorfia: — Le cose si sono messe piuttosto male — le disse.
Vi fu un colpo alla porta, poi il direttore l'avvertì che Cleveland era in linea. — Servizio rapido — approvò Biggo, e seguì l'uomo giù per le scale. Sorrise all'idea di Toevs che per tre giorni doveva esser stato a covare il telefono di quel bar, in attesa di comunicazioni. A Cleveland era passata l'ora di cena e sperò in cuor suo che l'olandese fosse ancora sobrio. Non era difficile che si fosse già bevuti i duecento dollari.
Sedette nell'angolo più lontano del piccolo ufficio, col telefono accanto, sorvegliando la porta e facendo attenzione che nessuno potesse udire. La comunicazione era perfetta: Toevs pareva dall'altro lato della strada invece che dalla parte opposta del continente. — Perché non m'hai chiamato prima? — gracchiò.
— Sono arrivato oggi nel pomeriggio.
— E hai fatto qualcosa, Biggo? Capisci quel che voglio dire.
— Ho bevuto un whisky.
— Ah! C'intendiamo. — Toevs sembrava perfettamente sobrio e impaziente. — Che cosa t'ha detto Zurico?
— Niente. È morto. Qualcuno gli ha sparato un colpo in testa e gli ha infilato all'occhiello una penna di pavone.
Per qualche attimo l'altro non parlò. — Biggo — mormorò poi — io e il padre di quel ragazzo abbiamo portato due vagoni di polvere a Pancho Villa.
— Molto gentile da parte vostra — cercò di scherzare Biggo. — Ma ora ascolta: sei in te o sei ubriaco?
— Sto benissimo; mi fa sempre effetto quando qualcuno muore: ecco tutto. Hai ancora quel foglio? Non possiamo permetterci di perderlo.
— Non preoccuparti per il foglio: preoccupati per me. Che cosa si fa, adesso?
Toevs non rispose: si schiarì la gola e fece un rumore, come se laggiù a Cleveland avesse sputato. Biggo allungò una gamba e col piede chiuse del tutto la porta. — Parla — grugnì nel ricevitore. — Sei in grado di cambiare il segnale concordato con Jaccalone?
— No.
— Perché no?
— Ho perduto i contatti con lui.
— Be', Dan, non posso dire che questo segnale del pavone continui a piacermi; non è più un segreto, dato che Zurico è stato ripescato con la penna all'occhiello. Che cosa può essere successo?
— Quello che temevo — disse Toevs, a disagio. — In un modo o nell'altro, Silver Magolnick ha scoperto tutto. Non vuole che Jaccalone torni negli Stati Uniti. Se riesce a rientrarci con la confessione lui è spacciato.
— E io a che punto sono, in conclusione?
— Più o meno come prima, ma dovrai guardarti in giro perché Magolnick deve aver mandato qualcuno a cercare di fermare la faccenda.
Biggo ci pensò sopra: — Che vuoi dire con "più o meno come prima"? — scattò. — Zurico è stato ucciso quando ancora io non ero giunto in città. Come ha potuto l'uomo di Magolnick arrivare prima di me? E come ha saputo della confessione e del segnale stabilito?
— Be'... stavo per spiegartelo. Qualcuno m'ha fatto ubriacare e ho raccontato tutto. Mi dispiace Biggo: la faccenda è stata riferita a Magolnick. Fino a quel momento non avevo fiatato.
— Che cosa hai detto, con precisione?
— Quasi tutto. Ma non il tuo nome, Biggo. Di te non ho detto neanche una parola. Il solo nome che Magolnick conosce è il mio.
Biggo sedette nella seggiola del direttore e strinse i denti guardando torvo il ricevitore: — Bastardo d'una jena — incominciò — se mai ti rivedo...
— Ascolta...
— Non hai fatto che mentirmi. E menti anche adesso.
— Ti giuro, io...
— Hai bevuto il mio whisky e mi hai garantito che si trattava d'un lavoretto semplice. Ma questo Magolnick sapeva già tutto, vero? Ora capisco come il suo uomo abbia potuto arrivare prima di me. Non mi meraviglio che tu abbia rinunciato così facilmente al cinquanta per cento, piuttosto di venire personalmente, vigliacco!
— Biggo, ascoltami, ti prego — supplicò Toevs in tono disperato. — Io ero tenuto d'occhio, per questo non ho osato sbrigare la faccenda, ma tu non sei conosciuto.
— Non te la sei sentita di affrontare il rischio: m'hai dato una parola d'ordine inservibile e hai sperato che non mi ammazzassero alla svelta come avrebbero ammazzato te. Non lo dimenticherò.
Biggo sbatté il ricevitore sulla forcella dirigendosi poi a testa bassa fuori dall'ufficio e su per le scale. Rinchiuse con un colpo la porta della stanza: — Stupido — si disse — avresti dovuto capire che nella faccenda c'era del marcio. Non c'è del marcio in tutto quanto?
Con un calcio fece volare una sedia dall'altra parte della stanza, poi continuò a prendere a pedate il mobilio per sfogare la rabbia. Maledisse tutto ciò che poteva maledire, ma non gli accadde neanche per un attimo di pensare ad abbandonare l'impresa. Tornò a colpire la seggiola, e quella si rimise dritta, nel posto in cui era stata originariamente. La cosa lo fece ridere.
E di colpo si sentì placato. Sedette sul letto, si prese la testa fra le mani e cercò di pensare al da farsi. Era tra due bande nemiche e non aveva modo d'identificarle. Avrebbe potuto riconoscere Tom Jaccalone dal ritaglio di giornale, ma era ben difficile che questi fosse venuto di persona a Ensenada. E così Magolnick. Entrambi avevano senza dubbio mandato dei rappresentanti armati.
Sia l'uno che l'altro avrebbero braccato il latore della confessione: l'agente di Jaccalone col denaro alla mano, quello di Magolnick con la pistola in pugno e la pallottola in canna.
Biggo si stancò di star seduto: si alzò.
— Tutto ciò che Biggo Venn deve fare — annunciò — è individuare l'uomo giusto. — Si grattò la fronte, incapace di vedere come avrebbe potuto scoprirlo in anticipo; poi scorse nello specchio il proprio volto preoccupato e si compatì. — Cerca di non sbagliare alla prima opportunità, scimmione — disse all'immagine riflessa — perché è difficile che se ne presenti una seconda. — La morte di Zurico non provava niente: forse l'uomo aveva preso la cosa con eccessiva leggerezza, o era stato tratto in inganno da un falso segno del pavone.
Biggo prese a percorrere su e giù la stanza, agitando di tanto in tanto un pugno in aria. — Che cosa posso fare? — si chiedeva. Dopo un quarto d'ora era sempre allo stesso punto. Sentiva il bisogno di agire. Ecco per che cosa era nato: per l'azione. Nel pieno della mischia quando tutto il mondo era in moto, qualcosa accadeva, di veramente valido e chiarificatore. Ma Biggo rammentava gli interminabili giorni d'attesa che precedevano quell'attimo e il vuoto che lo seguiva.
Anche quel combattimento, se combattimento poteva essere chiamato, non sarebbe stato diverso dagli altri.
— Naturale — concluse. — Non mi resta che aspettare. — Era nel centro della stanza e fissava a testa bassa la valigia. — L'uomo di Jaccalone non darà nessun segnale, data la comparsa della penna sul cadavere di Zurico. Quindi non c'è che attendere. Lasciamo che siano loro a cercarmi. Nessuno conosce Biggo Venn. — Tanto Magolnick quanto Jaccalone, dovevano essere più ansiosi di lui circa la confessione di Noon. Non potevano permettersi di temporeggiare, quindi poteva darsi che accadesse qualcosa a cambiare la situazione.
Ma per quanto tempo, lui, Biggo, avrebbe potuto attendere? Estrasse il portafogli e contò il denaro. Il taxi e le bibite consumate con la ragazza nel bar di Zurico avevano ridotto il suo capitale a centonovantun dollari. Ce n'era più che a sufficienza per un breve soggiorno, ma non certo per una lunga permanenza.
D'un tratto si lasciò sfuggire un'imprecazione: s'era dimenticato di lei, di Jinny. Nel pomeriggio, sentendosi sicuro, aveva parlato troppo. Non troppo per la situazione quale credeva fosse, ma troppo per la strategia che si rendeva necessario adottare. Aveva scherzato a proposito del segnale del pavone: se la ragazza si ricordava di lui, e Biggo non aveva alcun dubbio in proposito, avrebbe pensato al mercante di pavoni, al venditore di piume che l'aveva divertita.
E se Jinny avesse parlato con qualche cliente, magari proprio con chi non doveva? Imprecò a lei, a Toevs e a se stesso. Poi ebbe la prima idea della giornata. — Il solo modo per farla tacere è darle qualcos'altro a cui pensare — sentenziò. E le cose, di colpo, non gli parvero più tanto brutte. Aveva da fare.
4
Mercoledì, 13 settembre, ore 20
Il bar di Zurico era affollato, quella sera, e a Biggo quell'animazione parve un po' strana. S'era atteso di trovare il locale deserto e di dover cercare Jinny in altri ritrovi, ma evidentemente la memoria del proprietario veniva onorata con una specie di veglia festosa. O forse si trattava di celebrare l'avvento a proprietario del fratello minore: Biggo non avrebbe potuto dirlo.
I frequentatori si divertivano. Erano per lo più messicani; pochi gli americani, dato che la settimana era solo a metà. I musicanti suonavano e qualche coppia ballava; Jinny si stava lavorando due turisti, all'altra estremità del bar e beveva la solita gazosa con ciliegia.
Eccettuato il suo aspetto conturbante, non sembrava tagliata per quell'occupazione. Era troppo timida e sospettosa nei confronti dei clienti. Ma la sua bellezza l'aiutava. Indossava un lucente abito nero che le lasciava scoperte le spalle e parte della schiena. L'abito le arrivava alle ginocchia, ma quella sera aveva le calze.
Biggo trovò un tavolino libero in un angolo, ordinò una bibita e cercò di attirare l'attenzione della ragazza. Lei sapeva che era arrivato e forse - convenne l'uomo - aveva un po' paura di lui. Con un bicchiere in mano e gli occhi piacevolmente attratti da quelle gambe inguainate di seta, sentiva di non essere poi troppo in collera con Toevs.
Non era capace di serbare rancore a lungo e già incominciava a trovare delle scusanti al comportamento del vecchio amico. Inoltre la serata si prospettava bene, purché, naturalmente, Jinny avesse dimenticato il discorso sui pavoni.
Ordinò un'altra bibita: la ragazza, che ogni tanto esplorava con lo sguardo la sala, finse di concentrarsi sui due americani. Biggo attese. Allontanò un ragazzo che girava fra i tavolini con i biglietti d'una lotteria, poi qualcuno cercò, senza riuscirvi, d'interessarlo a un concerto che avrebbe avuto luogo di lì a due giorni. La musica continuava, e così le danze. Una turista americana, abbastanza ubriaca da trovar la cosa divertente, lo invitò a ballare. Aveva in testa il sombrero acquistato per la figlioletta che l'attendeva a casa. Biggo ballò con lei ripetutamente: doveva essere sulla trentina ed era abbastanza simpatica. Continuava a dire che non s'era mai divertita tanto in vita sua. Finalmente il marito se la portò via.
Quando Biggo fece ritorno al tavolino, vi trovò Jinny, alquanto imbronciata: — Be' — fece, per tutto saluto.
— Be': finalmente vi fate vedere.
— Pensavo foste venuto per me.
— Infatti.
— Non vi sciupate troppo a ballare?
— No — rispose Biggo. — Volete fare un giro anche voi bellezza?
— Io no. Sedete. Perché non siete venuto al bar a salvarmi?
Biggo sbirciò i due americani: osservavano lui e Jinny e parevano irritati. — I tipi come quelli potete manovrarli anche con le mani legate — dichiarò.
— Ma nessuno sta per legarmi le mani.
Biggo sedette e gridò al barista di servire due whisky. La ragazza disse che non beveva liquori lisci.
— Tutto quel seltz non vi fa bene: influisce sulla vostra vitalità.
— Non me ne importa.
— Ma importa a me — ribatté lui. — Può darsi che rimanga in città abbastanza a lungo.
— Come ho detto, non ho intenzione di farmi legare le mani.
I whisky arrivarono. Biggo li guardò con approvazione, soddisfatto di sé. Aveva deciso che il miglior modo per far stare zitta Jinny, riguardo ai pavoni, era di confonderle le idee, oscurare il motivo dei pavoni, fare in modo che ella dovesse rammentarsi di lui per altre ragioni. Ma non poteva confonderla se si ostinava a restare sobria. Disse «Saha» e ingollò il contenuto del proprio bicchierino.
Quel brindisi arabo non significava nulla per la ragazza, che bevve a sua volta e fece una smorfia: — Che porcheria! — gemette.
— Be', siete voi che lavorate in questo posto, non io.
— Al momento non ne sono troppo sicura. Avete saputo che Zurico è morto?
— Non sapevo neanche che fosse malato.
— Dovreste raccontare barzellette alla radio, mercante di piume.
Biggo era sollevato: evidentemente Jinny non aveva visto il corpo con la penna che lo ornava. Perlomeno, così pareva. — Infatti lavoro alla radio — dichiarò. — Non ve l'ho detto? Anzi, alla televisione.
— Credevo allevaste uccelli.
— No: scrivo scenette per tutti i programmi.
— Siete un bel tipo.
— Sono riuscito a entrarci perché conoscevo un tizio, molto in alto. — Biggo ordinò, con un cenno, altri due whisky. — E poi per merito del mio animo romantico.
— Quale uomo non è romantico? — ribatté lei, con scherno.
Il fratello di Zurico li guardava dal bar, corrucciato. Accennò alla ragazza di circolare fra gli altri avventori. — Vi ha ereditato insieme al bar? — insinuò l'uomo.
— Ne è convinto. — Jinny fece per alzarsi. — Be', torno al lavoro.
— Sedete. — Biggo la trattenne per il polso, provando una sensazione piacevole. — Non vi ho ancora raccontato tutta la storia della mia vita. In seguito si fa interessante. Come me: matura.
— Cercate di non marcire, maturando troppo. Quanto alla storia della vostra vita, non ci crederei neanche se la leggessi sulla Bibbia.
— Ho anche quella — affermò Biggo. L'aveva lasciata, insieme alla pistola, nella valigia all'Hotel Comercial. A quel punto della faccenda, era al sicuro là come in qualsiasi altro posto. — Mi piacerebbe farvela vedere.
— Ne ho già viste, grazie. — Jinny cercava di liberarsi e lui si divertiva a quella lotta innocua. — Oh, andiamo Biggo, lasciatemi: gli scherzi sono scherzi, ma una ragazza deve pur mangiare.
— Se è soltanto questo che vi preoccupa, possiamo andare a cena in qualche posto.
Il fratello di Zurico apparve vicino a loro. Aveva un'espressione minacciosa. — Tornate subito al lavoro — sibilò in spagnolo alla ragazza non pensando che Biggo avrebbe potuto capire — e smettetela di perder tempo con questo stupido. Presto, se non volete che vi mandi a fare il vostro mestiere sulla strada.
— Non permettetevi di parlarmi così, sudicione... — protestò Jinny, in inglese.
Il fratello di Zurico le mollò un manrovescio sulla bocca. Senza alzarsi Biggo puntò un piede nel ventre dell'uomo e lo scagliò contro un tavolino libero. Il messicano rovinò al suolo con gran baccano. La sala piombò nel silenzio, la musica s'interruppe.
Il fratello di Zurico s'alzò, la faccia contorta dalla rabbia. Biggo, sempre seduto, lo fissò con aria interrogativa. L'altro esitò un attimo, poi girò sui tacchi e tornò dietro al bancone. La musica riprese.
— Perché l'avete fatto? — chiese Jinny con amarezza.
— Addio impiego, adesso.
— Non vi è importato che vi picchiasse?
— Cos'è uno schiaffo in più o in meno? Adesso sono a terra.
— Avete ancora un invito a cena.
— Sì. — Gli occhi di lei avevano lo stesso color castano dei capelli, Biggo l'aveva notato solo allora. Lo guardavano simili a quelli di un cane bastonato, ma era evidente che dietro a essi la ragazza era intenta a calcolare.
— Mi dovete qualcosa non è così? — concluse sempre fissandolo.
Andò nel retrobottega a prendere la borsetta poi uscirono insieme seguiti dallo sguardo minaccioso del fratello di Zurico.
Mangiarono in un piccolo ristorante, poco lontano dal palazzo di giustizia. Durante la cena Biggo raccontò un altro paio di storie fantastiche circa la propria occupazione e Jinny rise. Malgrado le sue proteste l'uomo continuava a riempire il bicchiere di tequila e a proporre brindisi stravaganti. Lei pareva aver dimenticato tutto ciò che riguardava i pavoni e le loro penne, e Biggo si congratulò con se stesso per essere riuscito tanto bene a confondere le cose.
Comperò una bottiglia di tequila da portare all'albergo, scrollando il capo al pensiero di quanto gli sarebbe costata quella serata, ma poi si disse che quel denaro era speso a fin di bene: una specie di assicurazione sulla vita.
Quando finalmente furono nella camera, Jinny non sedette. Rimase in piedi al centro del locale e si guardò intorno, pensosa: — Che cosa faccio, qui? — domandò, in tono lamentoso.
— Che cosa facciamo noi tutti, dolcezza? — Biggo tolse la valigia dal letto e la posò sulla seggiola, accanto alla porta. Poi cercò due bicchieri per la tequila.
— Avrei dovuto tornare a casa mia, a Scribner, nel Nebraska. Cioè, no: è meglio che non ci sia tornata. — Aprì e richiuse la borsetta, oziosamente. — Mi piacerebbe poter dire che laggiù ero felice, ma non è vero: non lo sono mai stata. Però, che cosa faccio a Ensenada? — La tequila incominciava a farle effetto.
— Ci sarà pure un angolo di qualche paese sconosciuto che per te diventerà un secondo Scribner — la consolò Biggo, e riempì i bicchieri.
— Non credo: non riesco a nulla, io.
— Hai bisogno d'un goccetto che ti tiri su il morale. E smettila di giocare con quel maledetto fermaglio.
Lei aprì le mani e lasciò cadere la borsetta a terra. — Avrei bisogno d'una coscienza pulita — mormorò. — Sono sudicia, dentro, da qualunque parte mi guardi. — Prese il bicchiere e bevve. — Che robaccia! — gemette.
— Dovrebbe esser presa con sale e limone.
— Migliora?
— No. Non c'è niente che possa migliorare le cose: questa è la mia filosofia. — Poiché non c'era posto altrove, sedettero insieme sul letto. Biggo si sentiva di buon umore. Ciò che detestava maggiormente era il trovarsi in casa da solo. Ma la ragazza era lì, anche se pareva piuttosto distante, e gli impediva di sentirsi triste. Le si fece più vicino.
Jinny prese la bottiglia in grembo e versò da bere a entrambi, in silenzio. La lampada che pendeva dal soffitto illuminava le belle spalle nude, l'arco della scollatura. E la bocca era un altro arco, rosso e tragico.
— Smettila di sorvegliarmi — disse l'uomo, dopo un poco.
— Non ti sorveglio.
— Sì, che mi sorvegli. — Biggo scosse il capo: lo sentiva un po' pesante. — Sei seduta vicino a me come un'estranea, e non dovresti. — Le cinse le spalle con il braccio. Lei non fiatò, ma s'irrigidì.
— Non so neanche il tuo cognome — sussurrò — eppure sono nella tua camera e bevo con te.
— Credi proprio che la gente come noi abbia bisogno di presentazioni? Siamo tutti e due degli scarti, Jinny, e lo saremo sempre, in qualunque posto si vada. Il Nebraska non è per gli scarti.
La strinse un poco, e lei tremò. — Non voglio essere uno scarto, Biggo. — Con garbo si liberò del suo braccio e s'alzò, sempre tenendo la bottiglia.
— No — protestò lui, tendendo le braccia — dobbiamo stare insieme.
A un tratto s'accorse di sentirsi molto stanco: ma non aveva fatto niente che giustificasse quella stanchezza e non era tanto vecchio da poterla ammettere. No: non lo era ancora. — Dobbiamo stare insieme, uniti — farfugliò.
Dal centro della stanza lei lo osservava con un sorriso. — Chi sei, Biggo? — chiese. — Voglio dire, chi sei veramente?
Lui cercò di pensare. — Non so — rispose dopo un tempo che gli parve lunghissimo. La ragazza era sempre ferma davanti a lui, provocante: non poteva distogliere gli occhi dalla sua giovane figura flessuosa.
— Tutti sanno chi sono. Io lo so, per esempio: sono puro sudiciume, così m'hanno detto. Ma tu chi sei?
— Un soldato.
La luce vacillava e sembrava che i contorni della ragazza si facessero indecisi, vaghi. A Biggo dolevano gli occhi. Si alzò, cercando di prendere la bottiglia o di raggiungere Jinny: non sapeva bene quale cosa volesse fare. Brancolò: — Sono il miglior soldato del mondo, senza eccezioni — riprese.
La ragazza gli pareva infinitamente distante; non poteva raggiungerla. — Il miglior soldato e il più stanco — continuò con la lingua impastata.
— Sei stanco, Biggo?
— Sì, Jinny: stanco di tutto. Stanco di questo maledetto mondo.
Vacillò. Lei lo stava sempre fissando, perché lo fissava così? Ma era troppo stanco per pensarci, e anche per sentire il pavimento, quando cadde a corpo morto in avanti.
5
Giovedì, 14 settembre, ore 9
Biggo si svegliò. Giaceva a terra, accanto al letto, la faccia contro il tappeto; una della mani, esposta al sole che entrava dalla finestra, scottava.
Si rizzò in piedi, barcollando, e dovette appoggiarsi al bordo del letto Dopo essersi massaggiato le tempie un paio di volte e aver cercato di inghiottire, si guardò intorno. Vide la bottiglia di tequila,mezzo vuota, e la sedia accanto all'uscio: e fu appunto quest'ultima che lo riportò alla realtà.
La sera prima ci aveva messo sopra la valigia: ma la valigia non c'era più. Arrancò fino al bagno per vedere se non ce l'avesse trasportata in un secondo tempo: non c'era. Bevve svariati bicchieri d'acqua, allentandosi la cravatta per facilitare il passaggio del liquido nella gola e nel frattempo si sforzava di rammentare.
Quando ricordò, si accorse anche di non avere più l'orologio al polso. Lasciò cadere il bicchiere nella vasca e si cercò in tasca il portafogli: la tasca era vuota. — Jinny! — chiamò.
Anche lei era scomparsa, naturalmente, come tutto ciò che lui possedeva, eccettuato l'abito bianco gualcito che aveva indosso. Ricordò gli avvenimenti della sera prima e imprecò, rendendosi conto di essere stato derubato. La ragazza con cui aveva creduto d'essersi comportato tanto abilmente, l'aveva drogato e poi ripulito.
Gratificò lei e se stesso d'una valanga d'improperi.
Poi scorse nello specchio il proprio volto allucinato, dalla barba lunga, e rise. Si sfregò la nuca, che sentiva rigida. — Avrebbe almeno potuto mettermi sul letto, accidenti a lei — gracchiò. Si ripromise solennemente di non permettere mai più che una donna gli versasse da bere, nemmeno avesse il viso più innocente del mondo. Jinny l'aveva spogliato di tutto: gli aveva lasciato soltanto cinquantasette cent, in un taschino, e gli bruciava d'aver fatto la figura dell'imbecille.
— Dannazione! — bofonchiò — e dire che non sono nemmeno riuscito a baciarla.
Fissò con occhi vacui la seggiola vuota e ripeté: — Dannazione!
La valigia era andata, e con la valigia la Bibbia; nascosta nella Bibbia c'era la confessione di Noon, che valeva ventimila dollari per lui e per Toevs.
Il solo pensiero lo mandò in bestia: strinse le labbra e si slanciò fuori dalla stanza, giù per le scale dell'albergo. La strada era già affollata dalle massaie. Facendosi largo, Biggo si fiondò verso il bar di Zurico.
Spalancò la porta con una spallata e si scagliò sul barista che aveva appena aperto. Il ragazzo arretrò. Il fratello di Zurico stava controllando i conti nel retrobottega: appena vide chi era il visitatore mattiniero, assunse un'espressione torva, ma quando Biggo lo chiamò in spagnolo si affrettò a uscire.
— Non so — rispose alla sua domanda.
— È tornata qui, stanotte?
Il fratello di Zurico avrebbe voluto mandare al diavolo quell'americano prepotente, ma non osò. — Ieri sera ha lasciato l'impiego — borbottò. — Non so altro. Col vostro permesso, ho da fare.
Pronunciò la frase con sdegnosa cortesia e fece per volgere le spalle, ma Biggo si sporse al di là dal banco e l'afferrò per la cravatta. — Come si chiama, la ragazza?
— Jinny.
— E poi? — Diede uno strappo alla cravatta.
— Wagner.
— Dove abita?
— Se n'è andata, señor. Vi prego.
— Vuoi nasconderla, eh? Hai scoperto che cosa faceva tuo fratello per l'amico americano di tuo padre, e m'hai messo alle costole la ragazza, non è così? Rispondi!
Il messicano lo fissava sbalordito. Scosse il capo con aria interdetta, quasi strozzato dalla cravatta. Biggo sospirò: quello che aveva detto era suonato incredibile anche ai suoi stessi orecchi; era chiaro che Jinny l'aveva derubato di sua iniziativa.
— Be', stacci attento un'altra volta — minacciò. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma non aveva nessun motivo per farlo, così si limitò ad arruffargli i capelli impomatati e mollò la cravatta tanto improvvisamente che il messicano cadde all'indietro contro una fila di bottiglie, due delle quali finirono a terra. Biggo uscì nella strada.
Un taxi bianco e azzurro era posteggiato poco distante e l'autista si stava facendo lustrare le scarpe da un ragazzo. L'americano lo trascinò verso la macchina, mentre il ragazzo li seguiva strillando. Ma bastò un'occhiata di Biggo a farlo smettere.
Il taxi partì rapido verso l'aeroporto. In realtà Biggo non s'era soffermato ad analizzare la situazione. C'era un autobus che portava fuori città, e la ragazza avrebbe potuto prenderlo, o essersi servita di un taxi e di una macchina privata, ma se era ancora a Ensenada, del che lui dubitava, s'attendeva di trovarla all'aeroporto. Aveva il suo denaro e Biggo pensava a ciò che avrebbe fatto lui al suo posto, preoccupato solo d'arrivare troppo tardi.
Colpì con il piede la parete divisoria del taxi, sollecitando l'autista ad accelerare. L'uomo rise pensando a uno scherzo. Biggo sferrò un altro calcio per dimostrargli che non scherzava affatto. L'autista vide la sua faccia e premette l'acceleratore. L'americano ridacchiò e si diede a tirar calci, divertendosi nel vedere la nuca dell'altro sussultare. Il taxi andava sempre più veloce.
Raggiunsero l'aeroporto in una nube di polvere. Un aereo che decollava in quella, lanciò sassi e detriti contro il fianco dell'automobile. Ma si trattava d'un piccolo Aeronca, non d'un velivolo passeggeri.
Un vecchio bimotore Curtiss era pronto sulla pista, di fianco all'edificio in mattoni, e alcuni meccanici di carnagione bruna controllavano la messa a punto. I piloti erano seduti su delle cassette, all'ombra delle ali.
E poco distante c'era Jinny, che fissava il taxi in arrivo con aria disperata. Biggo riconobbe la propria valigia a terra, accanto a lei, insieme a un'altra di color azzurra più piccola.
— Tutto bene disse all'autista. — Potrò perfino pagare la corsa adesso.
L'uomo fermò davanti alla ragazza, senza capire.
Lei attendeva, incapace di pensare a una scappatoia. Indossava un abito verde, troppo pesante per la giornata.
Il terreno, intorno a lei, era cosparso di mozziconi: doveva essere molto tempo che aspettava. I meccanici smisero il lavoro per guardare il taxi.
Biggo discese e tenne la portiera aperta, in un gesto d'esagerata cortesia. Jinny lo fissò con sguardo vacuo, poi salì e si lasciò cadere sul sedile posteriore. Lui prese le due valigie e le scaraventò nell'auto. La ragazza non disse nulla.
L'autista si volse a guardare il passeggero con aria interrogativa. — Torniamo in città, amico — ordinò questi, sorridendo, e lasciarono l'aeroporto.
Biggo gratificò anche Jinny d'un sorriso. Allora lei si scosse. — Va' all'inferno, fottuto bastardo — biascicò tra i denti.
— Quello che mi va in te è che sei aristocratica fino alla punta delle dita. Mi piacciono le vere signore. Mi piacciono anche le loro borsette. — Prese la sua, l'aprì e vi frugò dentro. Ne tolse il proprio orologio, che si rimise al polso, il portafogli e il biglietto aereo. Contò il denaro: era calato a centotrentatré dollari. — Devo fartelo sputare il resto? — ruggì.
— È tutto lì. Il biglietto dell'aereo costa circa cinquanta dollari.
— Non hai mai sentito parlare dell'autobus, principessa? Quello ne costa solo cinque.
— Magari l'avessi preso. Non mi avresti mai più visto, allora. Ma avrei dovuto saperlo, che in questa maledetta città niente poteva andarmi bene.
— Poveretta! — motteggiò Biggo, sarcastico. Aprì la propria valigia e vi cacciò dentro un braccio: ne tolse la Bibbia ed esaminò la rilegatura. Tutto era a posto. Se la mise in tasca e richiuse il coperchio.
Erano quasi giunti alla zona commerciale della città.
— Trovate un posticino tranquillo e fermate la macchina per un momento — disse Biggo al messicano.
Jinny si era ripresa la borsetta. — M'hai portato via tutto il denaro — sbraitò. — Cos'altro vuoi? I vestiti che ho addosso?
— Ah, dunque era il tuo denaro?
— Sì, in parte era mio. Del tuo ho usato solo quello che mi occorreva, e te l'avrei rimandato, insieme al ricavato dell'orologio e della valigia.
— Rimandato dove? All'ospizio dei poveri di Ensenada?
— Quanto sei spiritoso — osservò lei sarcastica. — Dovresti recitare al varietà. E non dirmi che reciti davvero, perché con tutte le tue storie m'hai fatto quasi morire di noia.
— Qui va bene — disse Biggo. L'auto si fermò accanto a un giardinetto dominato da un vecchio cannone e da una statua alata. L'americano tolse tre dollari dal portafogli e li passò all'autista: — Fatevi una passeggiatina attorno all'isolato. Abbiamo bisogno di stare un po' soli.
Il messicano parve lieto di sgranchirsi le gambe. Si ficcò in tasca le chiavi della macchina e se ne andò rapido, senza voltarsi indietro. Ben presto svoltò l'angolo.
Jinny fissò Biggo: lui la prese per le spalle e l'attrasse a sé. La udì imprecare, a denti stretti: allora incominciò a baciarla sulla bocca, con violenza. A un tratto, sentì la sua rigidezza sciogliersi. Evidentemente, la ragazza ricominciava a sperare. Le sue braccia lo avvinsero, le labbra si schiusero e si appoggiò dolcemente al largo petto di lui.
Quando alla fine Biggo sollevò il capo, Jinny sospirò: le sue palpebre tremavano. Ma era tutta una finzione e l'uomo lo sapeva. — Questo fa parte di ciò che mi dovevi — mormorò. Poi si ritrasse più che poté e le mollò un manrovescio. Lo schiaffo non fu violento, ma il rumore secco che produsse lo riempì di soddisfazione. — Ed ecco che cosa ti dovevo io — continuò, colpendola ancora. — Fa' che non ti veda più in città, bellezza — concluse.
Jinny non pianse. Rimase seduta, rigida, gli occhi sbarrati. Ciò riempì Biggo di collera: la colpì ancora, per vedere se reagiva. La ragazza avvampò ma non pianse e non si ritrasse.
— Oh, va' al diavolo — mugolò lui. Non sapeva se si rivolgeva a lei o a se stesso. Ma sentiva in bocca un sapore amaro e non gl'importava nemmeno d'aver riavuto la Bibbia.
Scese dal taxi portando con sé la propria valigia. Dopo un po' si volse: Jinny sedeva nell'auto, come l'aveva lasciata, e dalla rigidezza delle spalle si capiva che non piangeva.
6
Giovedì, 14 settembre, ore 10,30
Biggo si diresse verso nord, per una quieta strada laterale che attraversava il quartiere commerciale. Desiderava tornare all'albergo, non fosse che per liberarsi della valigia. Aveva bisogno di radersi e, più ancora, di bere qualcosa che gli togliesse di bocca il sapore della tequila drogata. Sudava e ne risentiva l'odore con disgusto.
La Bibbia gli pesava nella tasca della giacca. In quella dei calzoni, invece, il portafogli era leggero centotrentatré dollari. Estrasse il biglietto dell'aereo e l'osservò: era per San Francisco, validità giorni trenta. Stampigliata in bella evidenza portava la scritta: «Non si effettuano rimborsi». Tornò a riporlo, sentendosi abbietto.
— Perché mi va male tutto quanto? — si chiese, ma la domanda gli parve degna di Jinny Wagner, sicché non cercò di rispondere.
Passò davanti a un ristorante costituito da una linda casetta intonacata, con un praticello davanti e un basso muretto intorno. Sul prato erano disposti tavolini e ombrelloni. L'insegna diceva: Cuisine Française. Alcuni avventori sedevano ai tavoli consumando in ritardo la colazione. L'insieme era troppo gaio e sereno per riuscire gradito a Biggo, quella mattina. Pensò che quella gente certo non si preoccupava di pavoni e allungò il passo.
Qualcosa lo colpì improvvisamente alla nuca: si volse di scatto falciando l'aria con la valigia e scorse un mezzo pompelmo spiaccicato al suolo, ai suoi piedi; toccò la poltiglia che gli imbrattava il colletto. Qualcuno, nel giardino del ristorante, stava ridendo.
Colui che rideva era seduto a un tavolo, vicino al muro. Aveva i capelli neri, la carnagione abbronzata e un paio di baffetti arroganti. Vedendosi scoperto scoppiò in un nuovo accesso di allegria, mostrando una chiostra di denti bianchissimi.
— Sahit! — esclamò Biggo, e sorrise appena. Allargò un poco le gambe: le sue braccia si alzarono, sollevarono al di sopra della testa la pesante valigia e la scagliarono contro colui che rideva. L'individuo, colpito in pieno petto, andò a gambe all'aria, trascinando con sé tavolino e ombrellone.
Biggo saltò il muretto. L'altro a terra cercava di liberarsi dai piatti e dal cibo sparso. Biggo gli piantò un piede sulla gola e lo fissò, come un gladiatore vittorioso. Non gli mancava che la daga in mano.
— Dillo — comandò.
L'uomo supino ghignava ancora, mentre la sua faccia si faceva violetta. Il piede di Biggo, premendo, gli rendeva difficile parlare, ma si sforzò: — Ezzy yellalah — gracchiò.
Era una specie di rito, tra loro.
— Così va meglio — approvò Biggo. Sollevò il piede, raddrizzò il tavolino e raccolse i piatti, miracolosamente intatti. Dalla soglia del ristorante la proprietaria messicana guardava la scena con orrore. La grossa giovane che faceva da cameriera, e che era sua figlia, le si era precipitata accanto, in cerca di protezione. Gli ultimi avventori si affrettavano a terminare il pasto, desiderosi di andarsene.
L'uomo si alzò, spolverandosi l'elegante abito sportivo. — Il male, in questi locali, è che lasciano entrare chiunque — commentò.
Biggo gli tolse dal taschino il fazzoletto immacolato e si asciugò la nuca. — La tua mira è migliorata, Lew — dichiarò.
— Ho tirato alla cosa più grossa che ti porti appresso: la zucca.
Lew Hardesty era un vigoroso animale maschio, minore di Biggo d'una decina d'anni. Era anche più bello di lui, più alto e più magro, con un fisico da nuotatore. Una profonda cicatrice gli solcava la guancia destra. Solo nei suoi occhi c'era qualcosa che ricordava Biggo Venn: l'aria irrequieta e insieme indifferente di chi se ne infischia del mondo.
Rimisero in piedi le seggiole e sedettero. Hardesty ordinò dell'altro caffè. La cameriera era scomparsa e così i clienti. La padrona, che li servì, procurò di starsene a rispettosa distanza da Biggo.
— Pensavo fossi in Bolivia — grugnì questi. Il fatto d'aver incontrato uno della sua razza non lo rallegrava affatto. Hardesty era un vecchio camerata, ma non un amico. Per di più aveva la caratteristica di comparire sempre dove non lo si sarebbe voluto.
— C'ero. Ma adesso sono qui. Cos'è successo?
— Hai mai passato un'estate in Bolivia? Fa un caldo cane.
Biggo comprese l'antifona: Hardesty s'era trovato dalla parte di quelli che avevano dovuto soccombere, chiunque fossero. — Già — osservò. — Pensavo a te proprio l'altra sera.
— Anch'io ti voglio bene.
— Oh, lo so. Ricordo quella volta nel Malay, quando mi hai fatto inseguire una tigre con un fucile scarico.
Hardesty rise: — Uno scherzetto niente male. Era una vecchia tigre, comunque: avevi più denti tu di lei. Non è stato forse peggio quando mi hai affidato quell'oppio, in Transgiordania? Me ne son stato in galera per due mesi finché una delle vostre cannonate non ha buttato giù un muro.
Anche Biggo rise: — Colpa del cannoniere: m'aveva promesso che t'avrebbe preso in pieno. — Quella volta si erano trovati a militare in campi opposti. Come Toevs e lui stesso, Lew Hardesty era uno di quei mercenari avvezzi a gravitare intorno ai paesi più instabili politicamente. Talvolta combattevano insieme, altre su fronti avversi. Il nemico d'oggi era l'alleato di domani.
— Pensavo proprio d'averti visto in Bolivia con le forze governative, voglio dire.
Biggo scosse il capo.
— Peccato — riprese l'altro. — Chissà chi ha ricevuto quel mio regaluccio, allora. — Bevve un sorso di caffè e accostò la sedia a quella del compagno accingendosi a raccontare: — Stavamo uscendo da un paese chiamato Cuernavaca: un agglomerato di case e un piccolo caffè, nient'altro. Ho pensato che, arrivandoci, tu saresti andato lì, per prima cosa; sicché, ho piazzato due bombe sotto la cassa, con una bottiglia per farle esplodere. Oh, era una cosa splendida, Biggo. Ne ho riso per tutto il tempo che ho impiegato per giungere alla costa.
— È dai primi di quest'anno che sono negli Stati Uniti.
— Male, male. Un vero peccato che uno scherzo come quello sia stato sprecato per qualche ignoto.
Biggo pensava com'era differente l'incontro con Hardesty da quello con Toevs. Hardesty era ancora nel fiore della vita, pieno di forza e di virilità, come lui stesso, del resto. Ebbe un pensiero inquietante: che Toevs avesse provato la medesima sensazione nei suoi confronti? Che davvero avesse creduto alle proprie bugie e ritenuto che il tempo non fosse passato? Ingollò il caffè cercando di rincuorarsi. — Cosa fai in Baja California? — chiese.
— Aspetto. Non mi trovo bene negli Stati Uniti, con tutto quel baccano. Pare che nessuno riposi, laggiù, hai notato? Attendo che scoppi qualcosa in Cina.
Biggo rise forte e Hardesty l'imitò. — Parola d'onore — riprese, con serietà — aspetto di giorno in giorno una comunicazione dell'Egiziano. Se sei libero potrò mettere una buona parola anche per te. Una volta tanto, possiamo anche stare dalla stessa parte. Non sei un gran combattente, ma mi diverti.
— Come quei venti arabi, Lew?
Hardesty sogghignò, ma poi s'avvide che Biggo aveva cambiato umore e smise. — Non potevamo permetterci di tenere dei prigionieri — si giustificò. — Non avevamo acqua da dar loro. Mi spiace che si sia trattato di quei tuoi arabi, ma c'est la guerre, cammarade.
L'atmosfera scherzosa esistente poco prima tra i due uomini s'era mutata in una pericolosa tensione. Si fissarono, in silenzio. La mente di Biggo isolò, automaticamente, due realtà dal suo risentimento: una era che la sua Beretta si trovava nella valigia chiusa, sotto molti indumenti. L'altra che Lew Hardesty non mancava mai di portare addosso la pistola. Senza dubbio anche in quel momento la nota Mauser dal calcio di madreperla pendeva sotto la sua ascella, nascosta dall'abito sportivo. Biggo si rese conto che l'ira, tanto a lungo repressa lo faceva pensare a soluzioni estreme. Non distolse lo sguardo ma scrollò le spalle.
— In qualunque momento tu voglia riparlarne... — disse Hardesty, lentamente.
— D'accordo. Te lo farò sapere.
Rimasero a fissarsi per qualche istante. Poi, d'improvviso, la tensione si placò. Hardesty tolse di tasca le sigarette e le offerse. — E tu che fai di bello a Ensenada? — chiese.
— Ti dirò, sono quasi deciso a comperare una piccola fattoria e vivere a contatto della natura.
— Oh, oh, oh! — fece Hardesty. — Sei qui per lavoro o per svago?
— Quando mai mi hai visto lavorare?
— Il che significa che si tratta di affari. Cos'hai nella manica, Biggo? Andiamo, confidati con il tuo vecchio compagno: puoi dirmi tutto. — Hardesty aveva uno sguardo freddo e acuto, come se intravedesse alle spalle di Biggo sacchi d'oro. Quello era un altro lato del suo carattere. — Se ci fosse qualcosa di buono da fare, qui a Baja, ebbene... la Cina potrebbe aspettare. Mi piacerebbe darti una mano. Cosa c'è, dunque? Il governatore ha qualche idea per la testa? O stai organizzando una sommossa?
— Niente di simile. Che io sappia il Messico è tranquillo. — Biggo sapeva che Hardesty amava intrufolarsi negli affari altrui. Se c'era da guadagnare qualcosa con facilità non era tipo da lasciarsi sfuggire l'occasione. — Anch'io aspetto notizie dalla Cina asserì.
— Ah! Davvero?
Biggo estrasse di tasca la Bibbia, la mise sul tavolino e vi posò sopra la mano. — Parola d'onore, Lew — protestò. Lo divertiva sventolare così ventimila dollari sotto il naso del compagno.
— Ti porti sempre in giro quella roba?
— Perché no? Ho imparato molto in materia di tattica, leggendola — e Biggo si rimise in tasca il libro sacro.
Hardesty scosse le spalle: — Hay gustos y gustos — bofonchiò. — Io personalmente preferisco un altro genere. — Ammiccò e volse gli occhi al cielo. — Ti farò sapere cosa propone l'Egiziano; se e quando avrò sue notizie.
— Perché non dovresti averne?
— Mi deve ancora del denaro per la faccenda della Bolivia. — D'improvviso Hardesty si fece cupo: — Quando verrà il giorno che ci pagheranno tutto, come stabilito? — si lamentò. — Quando cesseranno di truffarci e di farci rischiare la pelle per niente?
— Già — ammise Biggo, annoiato.
— Tutti ladri — continuò Hardesty terminando il suo caffè. Era incollerito ma non con Biggo. — A un certo momento ci si stanca. Brutta vita, eccettuate rare occasioni come si deve. Se penso a quali lavori ci si deve piegare, certe volte!
— Già. — Biggo ripensò al giro di conferenze interrotto, alle facce che lo fissavano e che sembravano voler penetrare il suo corpo grosso e forte. Allungò una mano verso la valigia e fece l'atto di alzarsi. — Forse ci rivedremo, Lew — disse, sperando il contrario.
— Resta ancora un po'. Ti offro una gita per la città nella mia automobile. — Hardesty sorrise per cancellare il momento di cattivo umore.
— No, ho bisogno di radermi e di un buon bagno.
Vi fu un po' d'agitazione nel piccolo edificio che serviva da cucina. Poi la proprietaria e sua figlia attraversarono il prato dirette verso di loro. Le seguivano due uomini in uniforme verde, con cinturoni e carabine. Polizia. La figlia indicava i due americani mentre la madre pronunciava un profluvio di parole spagnole.
— Che cosa succede? — domandò Biggo. Tutti guardavano verso di lui.
— Voi adesso venite con noi... — incominciò uno dei poliziotti in un inglese approssimativo.
— Parlate pure spagnolo — scattò Biggo.
— Siete in arresto per disturbo della quiete pubblica, assalto nei confronti di questo signore straniero e distruzione di oggetti della Señora Lopez.
— In arresto? Ma voi siete pazzo. Io non ho fatto nulla.
— Comunque, verrete con noi — dichiarò l'agente, con fermezza. Il suo compagno, fissando la faccia non rasata di Biggo, levò la carabina.
— Non dite sciocchezze: qui c'è un equivoco. Questo è un mio amico e stavamo scherzando. Niente di serio.
Il poliziotto sollevò un sopracciglio. Si volse con fare cortese ad Hardesty. — È vero, señor? — chiese. — Quest'uomo è vostro amico?
— Non l'avevo mai visto in vita mia — dichiarò Lew — e dire che ho una memoria eccellente per le facce. È vero: mi ha colpito con la valigia e ha minacciato di uccidermi se non gli pagavo la colazione. Mettetelo in cella di rigore, capitano.
— Vigliacco bastardo! — gridò Biggo. — Ti strapperò il cuore per questo scherzetto. — Il secondo agente gli puntò la carabina nella schiena. La madre e la figlia fuggirono terrorizzate.
Hardesty, impassibile, agitò una mano. — Portatelo via, capitano.
Il primo poliziotto s'inchinò e si mosse. Mentre Biggo s'allontanava, la carabina sempre puntata alle spalle, gli giunse la risata felice di Hardesty.
— Possa Allah chiuderti la gola con sterco di cammello — gli gridò, in arabo. Poi, con tutta la dignità consentita dalla valigia che gli sbatteva contro le gambe, proseguì verso la prigione.
7
Giovedì, 14 settembre, ore 11,30
E poco dopo vi fu un'altra risata. Mentre Biggo passava per lo stretto portoncino della prigione, udì un'amara risata femminile provenire dall'altro lato della strada. Non ebbe il tempo di scorgere chi l'aveva emessa. E, dato il momento, non gl'importò d'appurare se si trattava di Jinny Wagner o meno.
Il calabozo di Ensenada era una piccola fortezza, con le pareti spesse un metro, intonacate di scuro. Sulla facciata c'era una sporgenza munita di feritoie. Un cartello ammoniva i turisti a non fotografare l'edificio. Come il bar di Zurico, il retro della prigione dava sulla baia, e l'odore del mare era fresco e gradevole.
Il capo della polizia era un uomo dai capelli grigi, il volto intelligente e l'espressione annoiata. La sua uniforme era ben tagliata e Biggo, per contrasto, si sentì uno straccione. Il jefe si tolse di bocca il sigaro e ascoltò le imputazioni senza parlare.
— È ubriaco, il señor? — chiese quando i suoi subalterni ebbero finito.
— Posso rispondere da me — fece Biggo in spagnolo. — Non sono ubriaco.
— Ah? — Il jefe sollevò le sopracciglia. — Negate l'imputazione, allora?
— Sicuro. È stato tutto uno scherzo, nient'altro.
— Uno scherzo piuttosto pesante, direi. Bene, vedremo. Nel frattempo...
Biggo diede il primo nome che gli venne in mente e il jefe lo scrisse su un grosso libro.
— Siete americano, señor Smith? In tal caso allora, desidererete consultare il più vicino consolato, che si trova a Tijuana.
— Non in modo particolare. Desidero soltanto pagare la multa e andarmene.
— Ah? — fece ancora il jefe. — A suo tempo. Sì, a suo tempo.
Gli presero la valigia e il portafogli, commentando la mancanza di documenti d'identità. Poi gli tolsero la cintura dei calzoni e le stringhe delle scarpe. Per prevenire il suicidio, l'informò il jefe,in tono grave.
Biggo non fece resistenza, ma strinse saldamente la Bibbia. — Questa voglio tenerla — annunciò.
Il funzionario guardò con rispetto il libro sacro. — Ma certo, señor: il regolamento lo consente. Gli altri oggetti in vostro possesso saranno messi al sicuro e vi verranno restituiti al momento della partenza.
— Che sarà?
— Tra breve, tra breve. Dobbiamo osservare alcune formalità, ecco tutto. — Il jefe soffocò uno sbadiglio e si rimise il sigaro in bocca. — E la legge — aggiunse.
I due agenti guidarono Biggo lungo un corridoio freddo, aprirono un cancello e l'introdussero in un vasto locale imbiancato a calce, con il pavimento di cemento. Era la cella comune per reati minori, e ospitava una ventina di uomini, tutti messicani, per lo più sdraiati sui petate,le stuoie intrecciate usate dalle classi povere come letto e sedile. I prigionieri guardarono con curiosità Biggo, che ricambiò l'occhiata senza eccessivo interesse. La prigione non era una cosa nuova, per lui. Non conosceva i nomi dei suoi venti compagni dalla carnagione scura, ma quella era l'unica cosa che gli fosse ignota. Era come trovarsi a Fez o a Peshavar oppure, come gli era capitato di recente, all'Avana. Trovò un petate vuoto e vi sedette sopra, a gambe incrociate. Nessuno parlò non per ostilità, ma semplicemente perché, per innata cortesia, gli indigeni si trattenevano dal far domande. Certo si chiedevano chi fosse quello straniero, ma avrebbero senza dubbio lasciato passare anche un mese senza porgli alcuna domanda.
Biggo si appoggiò alla parete, d'umor tetro: pensò che poteva davvero restarci un mese, in quel posto. Gli altri prigionieri tornarono a ciò che stavano facendo. Qualcuno s'addormentò. Un gruppetto riprese a scommettere, incitando alla corsa delle piccole blatte. Altri facevano ciò che faceva Biggo sedevano e guardavano fisso davanti a sé.
Biggo si sentiva più stupito che irato: credeva nella fortuna, ma non la biasimava quando essa volgeva le spalle, e sapeva accettare sia la buona sia la cattiva sorte. Si disse che la ruota doveva aver girato in senso inverso provocando quell'incidente, nonché gli avvenimenti della notte prima. Quanto all'affare che l'aveva condotto a Ensenada, non aveva nemmeno avuto modo di occuparsene. Era riuscito solamente a non perdere la confessione di Noon. Ora, per quanto si rodesse, non poteva far altro che aspettare.
Il portafogli col denaro poteva considerarsi andato: conosceva la polizia indigena. Dio solo sapeva quanto tempo sarebbe rimasto in prigione: conosceva anche la giustizia indigena, che si muoveva con lentezza proporzionale al caldo. E quando il jefe avesse frugato nella sua valigia, sarebbe saltata fuori la Beretta automatica. Possesso illegale di armi da fuoco, crimine tra i crimini in un paese proclive alle rivoluzioni.
Biggo sospirò e pensò che sarebbe stato bello avere qualcosa da bere. Sognò un grosso bicchiere pieno di whisky. Poi immaginò di aver davanti Hardesty e il suo piede si levò nell'atto di mimare un calcio. Ridacchiò. Il messicano più vicino sorrise, a sua volta.
Per un poco Biggo giocherellò con la preziosa Bibbia. Eccettuato il fatto che possedeva ancora la confessione di Noon, non era più vicino ai ventimila dollari di quanto lo fosse stato la domenica precedente, a Cleveland.
Un'idea divertente lo colpì, a un tratto: — Qual è il destino dell'India? — disse, ad alta voce, e scoppiò a ridere. Si chiedeva come sarebbero rimasti i suoi ascoltatori se avessero potuto vedere il loro avventuroso eroe stanco e con la barba lunga, rinchiuso in una prigione messicana.
I compagni di cella lo guardarono con rispetto. Dopo un po' il suo vicino gli rivolse la parola: — Ridete da uomo coraggioso — osservò, come se se ne fosse accorto proprio in quel momento. Era un tipo scarno e spiritato, il viso lucente, quasi nero, le guance incavate. Indossava soltanto un paio di calzoni e le costole sporgevano in modo incredibile.
— Il mondo è buffo — disse Biggo.
— Proprio: una commedia. — Il messicano sogghignò e accostò il suo petate. Si presentò come Adolfo Huerta e precisò che non parlava l'inglese.
— Chiamatemi Biggo.
Adolfo s'inchinò con aria solenne, pur restando seduto. — È un grande onore trovare uno come voi, in questi luoghi, Don Biggo — dichiarò.
— Siete stato qui altre volte, allora?
— Ognuno ha i propri vizi, specialmente in fatto di donne.
— Vostra moglie?
— E quelle degli altri.
— Non v'è Eden senza frutto proibito. Così dicono nel Sud.
— È un proverbio nazionale — confermò il messicano — ma è un proverbio maschile. Le donne si rifiutano di accettarlo. Per esempio mia moglie Rosita. Caray,quanto mi ama, Don Biggo! Ma — indicò il petate — io sono qui.
— Anch'io penso d'esser qui a causa d'una donna. — Biggo alludeva a Jinny: se la ragazza non gli avesse rubato la valigia lui non si sarebbe imbattuto nell'allegro Hardesty.
— Non me ne meraviglio — disse Adolfo, in tono complimentoso.
— E nemmeno io nel caso vostro — rispose Biggo, rendendo la cortesia. — Spero solo che il vostro reato non sia grave, amigo. Quanto a me, il cielo m'è caduto addosso.
— Io mi sono tolta una soddisfazione. Avevo deciso di prendermi una vacanza insieme ad alcuni amici: una settimana, un mese... chi lo sa? Non sapevamo nemmeno dove saremmo andati. La mia Rosita ha trovato da ridire. Cosa potevo fare se non bastonarla? Se avessi agito diversamente avrei perduto il suo rispetto, oltre che il mio.
— E così siete finito in carcere.
Adolfo scrollò le spalle: — Nella collera del momento Rosita ha perso la testa. Adesso è pentita e vorrebbe che io tornassi a casa. Quando mi parrà che abbia sofferto abbastanza ritornerò. — Ignorava il cancello di ferro e le finestre sbarrate. — Non sono duro di cuore, Don Biggo.
Biggo incominciava a trovare simpatico quello strano tipo. Gli pareva anche d'invidiarlo un poco. Povero com'era, Adolfo sembrava felice e soddisfatto di sé. E aveva una Rosita che piangeva per lui. A chi importava che Biggo Venn fosse o no in prigione?
Chiacchierarono ancora un po', per lo più di donne. Alla fine Adolfo disse: — Hasta luego — e si dispose a dormire. Così fecero gli altri prigionieri: era l'ora della siesta. Biggo rotolò la sua stuoia e se la pose sotto la testa, stendendosi al suolo. Fissò il soffitto: c'era un console americano, a Tijuana. Ma il console non avrebbe mosso un dito a meno che lui non dichiarasse la propria identità. E l'identità di Biggo Venn doveva essere schedata fra i nominativi indesiderabili, in qualche lista dell'archivio consolare. Così il funzionario (Biggo detestava quella razza) non si sarebbe occupato del suo caso.
— Be', qualcosa deve pur succedere — borbottò, fiducioso. Chiuse gli occhi e subito si addormentò.
Il pasto della sera fu stranamente buono: ma Biggo l'avrebbe gustato in ogni modo perché erano ventiquattr'ore che non mangiava. Si gettò quindi con voracità sui fagioli e sulla tortilla. Quando ebbe vuotato la sua scodella e divorato la tortilla aveva ancora fame.
L'unica lampadina elettrica che pendeva dal soffitto pareva meschina, di giorno. Ma al calar del sole si rivelò sufficiente a illuminare il bianco stanzone. Uno dei prigionieri aveva una chitarra: si mise a suonare, mentre un suo compagno cantava. Le canzoni non erano gaie ma nemmeno decisamente tristi. Erano solo pervase di tutta la meraviglia dei peones di fronte alle forze della vita. Biggo provò un senso di solidarietà per quegli uomini. Dovette ammettere che gli veniva maggior calore dalla loro presenza che non da quella dei suoi pallidi ascoltatori americani di qualche giorno prima.
Si tolse la Bibbia di tasca e s'appoggiò al muro, poi sfogliò il libro in cerca d'una buona storia e scelse quella di David.
Adolfo lo guardava. — È meraviglioso saper leggere — sospirò.
— Davvero. — Biggo non ci aveva mai riflettuto, prima.
— M'hanno detto che nel vostro paese tutti, anche i poveri, sanno leggere. Mi pare difficile crederlo.
— È vero, sanno leggere tutti, o quasi tutti. Ma so che anche nel Messico hanno fatto molto, in questi ultimi tempi. Altri dieci o quindici anni e...
Il messicano annuì. — Il mio Doroteo, il figlio maggiore, va già a scuola e impara. Ma suo padre... — Fece una buffa smorfia, sempre fissando la Bibbia. — Una cosa meravigliosa, saper leggere — ripeté.
— Forse vi farà piacere che io legga per voi — offerse Biggo.
Adolfo fece un largo sorriso e si accoccolò più vicino. L'americano incominciò a leggere di David, il pastore. Leggeva adagio, perché era difficile tradurre le frasi poetiche del Vecchio testamento in spagnolo moderno. Ben presto prese a narrare la storia con le proprie parole, o a descrivere l'aspetto del paese, nel quale era stato non molto tempo prima.
Un altro prigioniero si avvicinò, poi un terzo. Il cantante smise di cantare. Il suonatore ripose lo strumento. Biggo si trovò attorniato da un intento uditorio. Non mostravano nessuna emozione particolare, ma ascoltavano assorti come David fosse andato a corte a suonare la sua arpa per il Re Saul. Fissavano tutti le labbra di Biggo, timorosi di perdere qualche parola.
Quando lesse di David bandito, i loro occhi si illuminarono, e si rattristarono ascoltando le sue vicende di mercenario, al soldo dei Filistei. La guardia entrò per spegnere la luce. Indugiò con le dita sull'interruttore, poi si unì agli ascoltatori. Il solo rumore nella stanza, lontana dal resto del mondo, era la lenta cadenza della voce di Biggo. David, l'eroe conquistatore, divenne David vecchio re, che, con tutte le sue mogli, cercava il calore d'una giovane fanciulla, per la sua vecchiaia.
Quando la storia fu finita nessuno parlò. Dal gruppo venne solo un lieve sospiro, simile a un amen, poi ognuno raggiunse il proprio petate. La guardia li lasciò al buio.
Nell'oscurità Adolfo mormorò: — Caray! A quei tempi erano uomini, Don Biggo!
8
Venerdì, 15 settembre, ore 9
Il giorno seguente era per Biggo soltanto un altro giorno. Ma per i messicani, guardie e prigionieri, era una ricorrenza importante: il giorno dell'Indipendenza, l'anniversario del tradizionale Grito de Dolor. Ricordava i tempi turbolenti del 1810, quando il prete soldato, Hidalgo, aveva suonato le campane della chiesa e guidato i contadini contro i signorotti spagnoli.
Era festa a Ensenada e in tutto il Messico.
Poco dopo colazione i prigionieri furono radunati per celebrare l'evento. — Dobbiamo mostrare alla regina della festa il nostro patriottismo — spiegò Adolfo a Biggo.
L'americano accolse la notizia con indifferenza: aveva appena saputo che la prigione passava due pasti soli al giorno.
Poiché era straniero gli fu concesso di rimanere in cella. Suo unico compagno era un patriarca canuto che sedeva in silenzio all'altra estremità del camerone. Le grida provenienti dal cortile indicavano che i prigionieri giocavano a soccer. Biggo per un po' rimase in ascolto, covando l'appetito, poi sedette a sfogliare la Bibbia. Si fermò alla storia di Giacobbe e la lesse, oziosamente. L'aria, nello stanzone, era calda e pesante. Il vociare dei giocatori faceva da soporifero. Mentre leggeva della lotta di Giacobbe con l'angelo, la testa gli si piegò.
Nel dormiveglia sentì i compagni rientrare in cella. Grugnì, infastidito e lasciò cadere il capo ancora più in basso. Poi qualcuno gli batté contro la suola d'una scarpa: la cosa lo meravigliò e alzò la testa.
A tutta prima non gli riuscì di connettere. Davanti a lui c'era una visione in bianco che gli sorrideva. Sprazzi di luce circondavano la sua testa: l'angelo pareva uscito dalle pagine della Bibbia.
Con fare goffo, Biggo s'alzò in piedi, sentendosi più sudicio e scimmiesco che mai.
La visione aveva un volto dai lineamenti delicati e una carnagione dorata. Indossava una specie di tunica greca che scendeva in ampi drappeggi sino a terra e pareva fluttuare.
Biggo si umettò le labbra secche ed emise una specie di brontolio strozzato.
La bocca rosea dell'apparizione continuava a sorridere, divertita. Da sotto l'arco sottile delle sopracciglia lo fissavano due occhi vellutati, d'un colore cupo, pieni d'innocenza e insieme di fuoco. Una preziosa mantiglia di pizzo fermata da una piccola corona celava i capelli della giovane.
— È questo il señor di cui mi avete parlato? — chiese la visione in spagnolo, senza distogliere gli occhi.
Biggo cercò di abbozzare una risposta ma poi si rese conto della presenza del jefe alle spalle della bella. Si rese conto anche d'avere un'espressione ben sciocca.
— Proprio questo, nostra regina — rispose il jefe. Con il frustino toccò il polso del prigioniero e la mano che teneva la Bibbia. — Muy religioso come potete vedere.
— Ehm... scusate le mie cattive maniere, señorita — farfugliò Biggo. — Non credevo che il mondo mandasse dei visitatori tanto affascinanti in questo posto.
Gli altri prigionieri erano tutti rientrati e si erano disposti lungo le pareti, da dove fissavano la scena.
La fanciulla chinò il capo, accettando il complimento. I suoi gesti erano regali. Era la più bella messicana che Biggo avesse mai veduto, un'eterea combinazione di nobiltà spagnola e maestà azteca. Evidentemente era avvezza ad accogliere gli omaggi, come qualcosa di dovuto. Sorrise ancora a Biggo e si mosse, seguita dal jefe.
L'americano la guardò soffermarsi a parlare con qualche altro prigioniero. Si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte.
— La regina della festa, Don Biggo — mormorò Adolfo, al suo fianco.
— Come si chiama?
Il messicano si strinse nelle spalle.
Il jefe batté con il frustino sul cancello e tutti lo guardarono. — Quello che sto per dirvi non vi sorprenderà — incominciò sorridendo. — La nostra graziosa regina della festa del Grito de Dolor eserciterà adesso le sue sovrane prerogative.
Con grande meraviglia di Biggo tutti i prigionieri gridarono «Ole!». Adolfo batté le mani, si spolverò i calzoni e rise. Solo l'americano e il vecchio dai capelli bianchi si astennero dal generale tripudio.
— Che cosa significa tutto ciò? — chiese Biggo ad Adolfo.
— Adesso la regina ci darà la libertà, Don Biggo! Potremo lasciare il calabozo!
Gli «Ole» continuavano a echeggiare.
— Questa sì che è una bella notizia! — gridò Biggo, illuminandosi. Poi domandò con sospetto: — Libererà tutti quanti, avete detto?
— Tutti i criminali minori, come voi e me. Vedete? Ha già preso le chiavi.
Con un piccolo inchino il jefe aveva consegnato un anello pieno di chiavi alla regina. La fanciulla ne girò una nella toppa, poi spinse il cancello fino ad aprirlo. — In nome del Padre Miguel Hidalgo y Costilla, padre del nostro onore, offro la libertà agli oppressi e agli sfortunati in questo Giorno d'Indipendenza — proclamò, pronunciando quella che doveva essere una formula rituale.
Vi fu un coro di urrà, poi i prigionieri mossero verso l'uscita. Biggo cercò di guardare ancora la ragazza, ma già la giovane donna s'era allontanata alla testa della processione. Si mise la Bibbia in tasca: incominciava a chiedersi che fine avesse fatto la sua valigia. Forse il jefe non aveva ancora avuto tempo di esaminarne il contenuto; forse la pistola non era ancora stata trovata.
Uscì nel corridoio. Il jefe era davanti alla porta del suo ufficio e gli fece un cenno. Biggo perse di colpo ogni speranza. La pistola era stata rintracciata. Serrò i pugni: adesso che era in vista della libertà, si sentiva disposto a lottare pur di conquistarla.
Ma nel piccolo ufficio del jefe,dietro la scrivanìa, stava seduta la regina. Il funzionario era molto cerimonioso: — Señorita — disse — mi permetto di presentarvi... — esitò prima di pronunciare il nome — il Señor Juan Smith. Señor Smith, la regina della nostra festa, Señorita Pabla Ybarra y Calderón.
Biggo si chiese il perché di tutte quelle formalità. Non erano certo dovute al possesso illegale della pistola. Rispose alla presentazione con la debita cortesia e la ragazza gli concesse un sorriso. — Vedete? — fece, rivolta al jefe — non ho scelto male.
Il messicano si strinse nelle spalle: evidentemente aveva qualche motivo per essere seccato.
— Posso avere la mia valigia e il resto?... — azzardò Biggo.
— Certamente. Prima però, devo dirvi che vi viene concesso un grande onore, Señor Smith. La nostra regina ha creduto opportuno scegliere voi per partecipare, in rappresentanza di tutti i prigionieri liberati, alla parata che avrà inizio tra poco. Avete qualcosa da obiettare? — aggiunse, speranzoso.
Biggo si passò la mano sulla barba lunga di tre giorni, poi sorrise a Pabla Ybarra. — Se non ha nulla da obiettare la nostra regina, non vedo perché dovrei trovare proprio io qualcosa da ridire.
— Eccellente — concluse il jefe,deluso — allora tutto è a posto. Benché non siate di questo paese, la Señorita Ybarra ritiene che possediate certi requisiti religiosi mancanti agli altri prigionieri. Per tal motivo...
Biggo non lo ascoltava più. Fissava la ragazza seduta, la bianca tunica drappeggiata sulla sua bella persona. Provò un brivido d'eccitazione davanti a tanta delicatezza. Era pronto a scommettere che quegli occhi non avevano mai guardato un essere rozzo e sudicio com'era lui. Eppure la presenza della fanciulla lo mondava, faceva sì che si sentisse più puro. In lei vedeva l'innocenza più completa. Pabla sostenne il suo sguardo con ingenuità, senza alcuna civetteria: evidentemente si interessava a lui unicamente come al simbolo del prigioniero liberato, così come lei stessa in quel momento era un simbolo.
Si alzò in piedi in silenzio. Teneva in mano un ventaglio di avorio intagliato e seta bianca. — Señores... — disse, facendo di quell'unica parola un invito e insieme un comando.
Biggo la guardò allontanarsi lungo il corridoio, bianca figura stagliata contro la luce. Il jefe gli consegnò cintura e stringhe. Se le rimise, poi prese dalla scrivania il portafogli. Il messicano accese il sigaro e lo precedette verso l'uscita. Biggo cercò di contare di nascosto il denaro: incredibile a dirsi, sembrava esserci tutto.
Fuori, nel caldo sole settembrino, attendeva una gran folla. Il corteo si formava davanti alle prigioni e comprendeva le forze di polizia, soldati, marinai, cadetti, gli alunni delle scuole, gli impiegati municipali e i rappresentanti dei gruppi politici. C'erano varie bande: quella della marina, quella dei pescatori e altre, provenienti dai dintorni. Fra le automobili allineate spiccava un autocarro Ford nuovo di zecca, ornato da festoni di fiori e carte colorate, sul piano del quale erano stati eretti due troni.
— Sì — disse il jefe — quello è il vostro posto nel corteo.
Qualcuno aveva già aiutato Pabla a salire sul suo trono. Biggo si arrampicò a sua volta e le sedette accanto. Un agente caricò la sua valigia sul sedile anteriore.
La giovane volse lo sguardo verso di lui, poi fissò dinanzi a sé. Alzò una mano e le bande presero a suonare, tutte insieme. Dalla folla accalcata sui marciapiedi venne un evviva. L'autocarro si avviò e il corteo si mosse verso sud. Le strade erano colme di gente, indigeni e turisti, e tutti applaudivano la regina. Lei sorrideva e ringraziava con cenni del capo, da vera sovrana.
Al primo angolo disse, in un inglese addolcito dall'accento messicano: — Applaudono anche voi, señor Smith.
Biggo fino a quel momento aveva pensato che seduto su quel trono di fiori e portato in trionfo come un imperatore romano, formava un magnifico bersaglio per chi avesse voluto tirargli un colpo di pistola. Se l'agente di Magolnick fra tutte quelle facce anonime, avesse immaginato che cosa c'era nella sua tasca, nascosto nella Bibbia, quella parata avrebbe potuto dirigersi verso il cimitero.
La fanciulla toccò il suo pugno chiuso. — Non potete dedicar loro almeno l'accenno d'un sorriso? — pregò.
In quel momento Biggo scorse Lew Hardesty, fermo davanti a un portone imbandierato. Anche Lew lo vide e la sua bocca, sotto i baffetti, si spalancò per lo stupore: pareva un pesce preso all'amo. Biggo scoppiò a ridere.
— Così va meglio — approvò Pabla. Gli batté sul pugno e continuò a sorridere alla folla.
Biggo dischiuse la mano e ne guardò il dorso, ricoperto da una peluria biondiccia. Poi fissò il profilo delicato di lei: la giovane se ne rese conto e parve arrossire leggermente.
Quando la banda dei pescatori, che stava proprio dietro di loro, interruppe un attimo l'esecuzione per respirare, lei lo apostrofò: — Siete americano, vero?
— Più o meno.
— Non capisco.
— Sono nato negli Stati Uniti, ma da allora ho sempre girovagato.
— Oh, comprendo. E vi piace Ensenada? — Non attese una risposta. — A me piace. La gente è simpatica e l'aria dolce. Guardate! — Con un largo gesto del braccio indicò il paesaggio, dalla baia alle montagne. — Potete immaginare infelicità o turbamento in un posto come questo?
Biggo poteva ma non lo disse. — Non è la vostra città, allora? — domandò invece.
— No — rispose lei, dispiaciuta. — La mia famiglia è di Città del Messico ma quando posso vengo qui a riposare. Sapete, è grande onore per una forestiera essere stata eletta regina della festa. — Aggrottò la fronte come una bimba che narrasse un torto subito. — Oh, molte ragazze saranno gelose di me, che sono straniera: è per questo che vi ho scelto, perché anche voi siete straniero e per di più un vero esempio di fede religiosa.
Biggo emise un brontolio.
— Spero non vi addormenterete — aggiunse Pabla. — Può capitare benissimo. — Il suo sorriso divertito tornò a rivolgersi alla folla e la banda riprese a suonare, rumorosamente.
Alla periferia della città il corteo svoltò e tornò per l'Avenida Ruiz verso la statua di Miguel Hidalgo. Pabla addobbò il monumento con una ghirlanda di fiori, s'inginocchiò per un attimo in preghiera e accennò a Biggo di fare altrettanto. L'uomo obbedì. Sbirciando di fianco scorse il fratello di Zurico davanti al proprio bar dall'altra parte della strada, ma il messicano non diede segno d'averlo riconosciuto. Biggo s'attendeva quasi di vedere anche Jinny, ma poi ricordò che le aveva ingiunto di lasciare la città.
Terminato il rito davanti alla statua, il corteo prese la via del ritorno. Le bande smisero di suonare, le rappresentanze militari vennero congedate e si allontanarono in varie direzioni, sollevando nubi di polvere.
Appena l'autocarro si arrestò, Biggo saltò subito a terra onde poter aiutare Pabla. Appoggiò con fare rispettoso le mani ai lati della sua vita sottile, la sollevò e la depose delicatamente a terra: era leggera e fragile, gli dava la sensazione d'essere l'uomo più forte del mondo.
— E ora che si fa? — domandò l'americano.
Pabla indicò una Cadillac trasformabile con la capote abbassata. Una donna che poteva avere una sessantina d'anni, vestita di nero, attendeva sul sedile posteriore. — La mia governante — spiegò. — Mamacita! — chiamò, agitando una mano. La donna guardò Biggo con ostilità.
— Be', grazie per la passeggiata, Pabla.
Lei parve non rilevare d'essere stata chiamata per nome. — Io vado verso sud, señor Smith — annunciò.
— Grazie ancora, ma debbo tornare in città, dalle parti del calabozo dove vi ho vista la prima volta e ho creduto foste un angelo.
Lei scoppiò in una risata argentina. — Davvero? E adesso invece ne dubitate?
— Non del tutto. Però non ho mai pensato a un angelo coi capelli neri.
Negli occhi di Pabla brillò una luce maliziosa. Sollevò le mani e staccò dal capo l'acconciatura, composta dalla corona e dalla mantiglia. Sopra i suoi occhi scuri, frangiati da ciglia nere, brillava una capigliatura dorata. Non più trattenuti, i riccioli lucenti le ricaddero sulle spalle, come un'aureola.
— Ecco — disse con gravità la fanciulla. — E non dubitate più, señor.
Rise ancora, raccolse le pieghe del lungo abito e corse con grazia verso la Cadillac. Vi montò e l'avviò senza voltarsi. La governante si sporse in avanti a parlare, concitata e severa.
Biggo rimase in mezzo alla strada, a fissare l'auto che si allontanava. Quando fece per muoversi, vide qualcosa ai suoi piedi: un nastro bianco caduto dal ventaglio della bella. Lo raccolse pensoso e lo ripose nel portafogli. Poi prese la valigia e s'avviò in direzione della città.
9
Venerdì, 15 settembre, ore 13
La valigia pesava, ma Biggo non sentiva la fatica della camminata al sole: Pabla Ybarra occupava la sua mente. A un certo punto si batté sulla tasca che conteneva la Bibbia, il libro in virtù del quale lei l'aveva notato. — Muy religioso — ripeté, e rise, sentendosi felice.
Il corteo s'era disciolto nei pressi dell'aeroporto: l'Hotel Comercial era molto distante, e quando Biggo raggiunse l'Avenida Ruiz la folla s'era già dispersa. Poche persone si attardavano nelle strade: era l'ora del pranzo, a cui seguiva quella della siesta. Biggo si fermò al primo bar e ordinò una birra e un panino.
Giacché aveva aperto il portafogli, contò le proprie sostanze, poi benedisse l'onestà del jefe e della polizia d'Ensenada in genere: il denaro c'era tutto, centotrentatré dollari. Si concesse un'altra birra e un altro panino per celebrare l'avvenimento. Se anche qualcuno nel bar lo riconobbe, come ultimo simbolo della libertà, nessuno gliene fece parola.
Risalì l'Avenida Ruiz verso l'albergo. Il mondo era tornato bello, ai suoi occhi. — È finita la cattiva sorte — si disse — ora incomincia la fortuna. — L'essere uscito dalla prigione con tanta facilità gli pareva di buon auspicio. Per di più aveva ancora la Bibbia e buona parte del gruzzolo iniziale. Era libero di attendere gli sviluppi dell'affare del pavone. Inoltre non dubitava di poter rivedere Pabla.
Di fronte all'Hotel Comercial, dall'altra parte della strada, sostava un uomo. Biggo lo guardò, poi tornò a guardarlo: era l'individuo dai capelli rossi e la faccia bovina che osservava i passeggeri in arrivo all'aeroporto. Allora l'americano non se n'era preoccupato troppo, ma in seguito c'era stato l'assassinio di Zurico.
Si fermò nell'ombra dell'arcata, davanti all'albergo, a rifare il nodo d'una stringa. Senza darlo a vedere, studiò il Rosso. Gli pareva meno innocente, quella mattina: poteva benissimo essere coinvolto nell'affare della confessione. E, a giudicare dalla corporatura, doveva essere capace di badare a se stesso. Come all'aeroporto, anche quel giorno non pareva che si interessasse particolarmente a Biggo. Si limitava a starsene là di fronte, davanti alla vetrina d'una calzoleria, con addosso lo stesso abito nero. L'Hotel Comercial era perfettamente nella sua visuale.
Biggo riprese la valigia ed entrò nella hall, illuminata da grandi finestre. Non c'era nessuno, eccettuato il direttore. Passandogli davanti l'americano lanciò un'occhiata al casellario della posta che stava alle sue spalle. C'era una casella per ogni camera, e da quella contrassegnata con il numero della sua sporgeva una grande busta bruna, tanto ingombrante da aver dovuto essere ripiegata per entrare nel piccolo scompartimento.
Biggo comprese che cosa attendeva il Rosso. Non si fermò nemmeno. Disse «Buenos dias» allo stupefatto direttore e proseguì. Il messicano si chiese di certo come mai B. Venn, arrivato due giorni prima, ricomparisse con la valigia e con quell'aspetto da vagabondo. Biggo passò per la porta posteriore, e uscì su uno spiazzo. Da qui partiva una viuzza, ed egli la imboccò, senza badare alla direzione.
Il Rosso era in attesa davanti all'albergo per vedere chi avrebbe ritirato la busta. Era in attesa per appurare l'identità di B. Venn.
L'americano emise un grugnito: Ensenada non era poi un paradiso, come aveva cominciato a pensare. Forse era sfuggito proprio al sicario pagato da Magolnick, all'agente incaricato di fermarlo a ogni costo. Evidentemente il Rosso aveva spiato tutti gli stranieri sospetti giunti a Ensenada e concentrato i suoi dubbi sul misterioso B. Venn, comparso due giorni prima e poi sparito.
— Può darsi che stia controllando anche le mosse di qualche altro — mormorò Biggo — forse non ci sarò io solo sulla sua lista.
Comunque non poteva rischiare di tornare all'Hotel Comercial, neanche ammettendo che il Rosso fosse l'agente di Jaccalone, e avesse ventimila dollari in tasca. Non poteva fidarsi né d'una banda né dell'altra. Poteva darsi che il direttore dell'albergo rammentasse la telefonata a Cleveland fatta dallo strano cliente: forse ne aveva già parlato a qualcuno. Il Rosso, probabilmente, aveva già ottenuto da lui una vaga descrizione di B. Venn.
Era necessario che B. Venn sparisse di nuovo.
Ma la cosa non era tanto agevole. Biggo percorse la stradetta fino in fondo, poi svoltò a ovest. In Ensenada erano due le persone che lo conoscevano per nome. Jinny l'aveva spaventata e presumibilmente doveva essersi allontanata, ma sarebbe stato difficile non incontrare Hardesty in una città tanto piccola. E per di più quello era tipo da vendere la vita di Biggo per il prezzo d'una bevuta, o anche per puro divertimento: a meno che non ritenesse di poter guadagnare di più unendosi a lui. Hardesty come se non bastasse era convinto che Biggo avesse qualche affare per le mani: era stato facile comprenderlo.
— Mi venga un accidente se sono disposto a dividere la mia parte di guadagno — borbottò Biggo ai gabbiani. Era giunto all'imbarcadero: adocchiò le barche da pesca, i battelli da diporto, le rugginose corvette della marina messicana. — Bisogna che me ne vada in un posto che Lew non frequenta — decise.
Guardò verso settentrione, alle baracche-albergo per turisti di passaggio. Hardesty aveva un'auto e poteva darsi che si fosse fermato proprio là, quindi quella sistemazione era da scartare. Guardò le colline: per qualche giorno poteva benissimo accamparsi lassù, ma perdendo del tutto i contatti con la città non avrebbe risolto nulla. Per di più un bivacco poteva attirare l'attenzione.
Si volse verso sud, sfregandosi il mento ispido. Il suo sguardo incrociò la bianca architettura a torri del Riviera Pacifico, l'albergo dei milionari. Un posto appartato, anche se ancora in città.
— L'ideale — disse l'americano. Laggiù si sarebbe trovato in un ambiente sociale diverso da quello del modesto Hotel Comercial. Sarebbe stato fuori dalla portata del Rosso e dubitava che Hardesty avrebbe cercato Biggo Venn in un albergo per turisti di classe.
Tornò a contare il denaro che aveva nel portafogli e sospirò: centotrendadue dollari. Non era molto per un albergo le cui camere partivano da un minimo di sedici dollari al giorno. Ma forse quel periodo d'attesa non sarebbe durato a lungo; forse qualcosa era già cambiato, dalla parte di Magolnick o da quella di Jaccalone. Si confortò pensando che ancora non aveva dovuto pagare conti d'albergo, a Ensenada. Chi poteva dire come sarebbe andata al Riviera Pacifico?
Fu sul punto di chiamare un taxi, ma poi si rese conto d'essere in uno stato pietoso. Non poteva presentarsi a un albergo di lusso con l'aspetto di chi è appena uscito di galera, anche se era vero. Doveva mettersi in ordine.
Camminò fino all'angolo dell'Avenida Ruiz e fece capolino, con cautela. Il Rosso era ancora al suo posto d'osservazione, di fronte all'Hotel Comercial.
— Aspetta pure, amico — sibilò tra sé.
Fece un giro per non dovergli passare ancora davanti, trovò un negozio di barbiere e vi entrò. Mentre deponeva a terra la valigia pensò che era stanco di portarsela appresso. E pensò pure che, appena avesse trovato un tetto, per prima cosa avrebbe tirato fuori la sua Beretta automatica e relative munizioni.
10
Venerdì, 15 settembre, ore 14
Il barbiere aveva un fratello sarto. Mentre Biggo si faceva tagliare i capelli, con un lenzuolo sulle gambe nude, il sarto, a due porte di distanza, gli stirava l'abito. Un ragazzetto lucidò le sue scapre: era l'unico cliente che ci fosse in quel momento in bottega.
Sfogliò i giornali degli ultimi due giorni. Non c'era nulla che riguardasse i pavoni, eccetto la morte di Zurico. La polizia, però, non aveva fatto gran caso al ritrovamento della penna sul cadavere. Stavano fermando i vari ubriaconi locali a cui Zurico aveva, più o meno di recente, rifiutato un impiego.
Quando il barbiere ebbe finito, Biggo scostò dagli occhi il panno caldo che gli era stato posto sul viso rasato: in questo modo poteva scorgere chi passava per l'Avenida Ruiz. Non vide il Rosso, né altri tipi sospetti. Non che credesse d'esser stato seguito fin lì, ma gli passavano per la mente preoccupazioni infondate insolite in lui. La Bibbia gli bruciava sulle ginocchia, sotto il lenzuolo. Si chiese dove fosse in quel momento l'emissario di Jaccaltone. Probabilmente in qualche camera d'albergo a spiare nella strada, dalla finestra, nascosto dall'avvolgibile semiabbassato. Forse faceva delle supposizioni circa la possibile identità di Biggo, come Biggo le faceva sulla sua.
"Appena posso mi metterò in contatto con te, fratello" mormorò l'americano. Ma non sapeva come gli sarebbe riuscito.
Il sarto riportò l'abito. Biggo tolse dalla valigia una camicia pulita e si vestì, nel retrobottega. Aveva un aspetto ben diverso da quello del vagabondo uscito quella mattina dalle carceri. Lo specchio rifletté il suo sorriso compiaciuto.
Mentre pagava al barbiere quattro dollari e mezzo per il servizio (riducendo così il suo capitale a centoventisette dollari) vide una Chevy vecchio modello risalire la strada. Era una coupé color marrone, con targa della California, e la guidava Lew Hardesty. Biggo volse la schiena per non essere visto.
Ma Hardesty non guardava dalla sua parte, intento com'era ad ammirare la ragazza uscita in quel momento dal caffè La Posada, un locale stile americano con insegna al neon. La ragazza aveva curve generose, messe in evidenza da un attillato abito verde, troppo pesante per la giornata, e portava una valigetta azzurra. Pareva stanca e delusa.
Alla vista di Jinny Wagner il buon umore di Biggo scomparve di colpo. Imprecò.
— Señor? — chiese il barbiere, con cortesia.
— Niente. — Biggo intuiva che cosa stava per succedere sotto i suoi occhi. Le ultime due persone al mondo che avrebbe voluto veder vicine erano sul punto di conoscersi.
Così fu, infatti. Hardesty scivolò fuori dall'abitacolo, con grazia felina, rivolse la parola alla ragazza e si tolse il cappello. Lei abbozzò un sorriso e rispose. Dopo un attimo d'esitazione entrarono fianco a fianco nel bar.
— Le avevo detto di lasciare la città — mugolò Biggo. Scosse il capo. Doveva a tutti i costi interrompere quel colloquio. Jinny era tipo da raccontare le sue pene ad Hardesty, e Hardesty aveva un sesto senso per scoprire le faccende altrui: se non poteva immischiarsi negli affari di Biggo, avrebbe fatto di tutto per guastarli.
— Avete un telefono? — domandò. Gli venne mostrato l'apparecchio. Biggo chiese al barbiere l'indirizzo d'una buona autorimessa, e questi raccomandò quella di Hussong. Biggo compose il numero e disse all'uomo che rispose di chiamarsi Hardesty. — La mia macchina è ferma davanti al caffè La Posada. No, non so cosa ci sia di guasto; è per questo che vi ho chiamato. Ho perduto anche le chiavi. Venite al più presto a rimorchiarla.
— Forse potremo trovare il guasto senza... — incominciò l'uomo.
— Non discutiamo — tagliò corto Biggo. Pensò che usando le maniere brusche, ad Hardesty avrebbero presentato un conto più salato. — Venite e portate via quella maledetta auto. — Sporse la testa e dettò il numero della targa.
— Muy bien. Il nostro carro attrezzi verrà...
— Io sono nel caffè. Appena avrete trovato il guasto chiamatemi. — Riappese. Il barbiere lo guardava incuriosito. — Grazie per la telefonata — gli disse Biggo. Prese la valigia e si affrettò ad attraversare la strada. Sollevò il cofano della Chevy e ficcò le mani nei fili elettrici, strappandoli a casaccio. Poi lasciò ricadere il cofano. Il barbiere lo stava ancora osservando: gli indirizzò un cenno di saluto.
Si nascose in un vicino portone e attese paziente. Dopo cinque minuti il camioncino di Hussong arrivò. I meccanici parlottarono per un po', meravigliandosi della mancanza di chiavi; ma dovevano aver detto loro di non disturbare il proprietario, un americano molto suscettibile. Alla fine agganciarono l'auto di Hardesty e la trascinarono via.
Soddisfatto, Biggo prese la valigia ed entrò nel bar. Dopo la strada assolata, l'ambiente pareva ancora più fresco e oscuro. Dapprima non poté distinguere nulla; poi vide al banco due persone che gli volgevano le spalle: Jinny e Hardesty, i soli clienti. Andò loro accanto, sfoderando un largo sorriso.
— Il mondo è piccolo — e diede ad Hardesty un'amichevole manata nella schiena.
Il Martini che questi stava bevendo schizzò sul banco. — Troppo maledettamente piccolo, qualche volta — brontolò Lew. Fino a quel momento aveva tenuto la mano di Jinny, ma fu costretto a lasciarla per asciugare la manica del suo abito sportivo.
— Credevo fossi in prigione — mormorò la ragazza con un fil di voce. Pareva sul punto di svenire. Rimase con la tartina che stava mangiando sospesa a mezz'aria.
— Un uomo onesto non ha nulla da temere dalla giustizia, bellezza.
— Perché, tu saresti un uomo onesto?
— Voi lo conoscete? — domandò Hardesty, mordendosi il labbro superiore con sospetto. — Voglio solo sapere qual è la situazione, bella mia.
— Siamo vecchi amici — dichiarò Biggo e sedette all'altro fianco della ragazza. Lei si ritrasse. I segni del manrovescio di Biggo non si notavano troppo. Li aveva cosparsi di cipria e la luce era poca. — Che cosa beviamo Lew?
— Sta' quieto, Biggo, e non piantar grane in presenza della signorina. Va' in qualche altro posto. Torna in prigione, magari.
— Non mi vogliono più.
— Allora siamo tutti della stessa opinione.
— Un angelo è sceso dal cielo e m'ha liberato — spiegò Biggo. — Che ve ne pare? Se nessuno di voi sa che cosa sia un angelo, ho qui la Bibbia. — Si batté sulla tasca dove teneva il prezioso libro.
— Ancora le stesse sciocchezze — commentò Jinny, amara. Aveva davanti un piatto di tartine al formaggio: continuò a mangiare avidamente. — Pensa di essere spiritoso. Ora vi racconterà...
— Tre Martini — interruppe Biggo rivolto al barista. — Lisci, però.
— Non voglio bere — scattò la ragazza. — E non voglio aver niente a che fare con te.
Hardesty le batté su una gamba. — Lascia fare a me, cara. — Fissò Biggo, che mostrava tutti e trentadue i denti in un falso sorriso. — Avanti, sloggia.
— Sto bene qui, Lew.
— No! — pregò Jinny. — Niente guai, per favore. Lasciami stare e non procurarmi fastidi. Sono soltanto una ragazza che cerca di tirare avanti.
Furono serviti i Martini: Jinny rivolse al barista un penoso sorriso. Assaggiò appena il suo dopo aver mangiato l'oliva, ma aveva finito tutte le tartine. Volse la schiena in modo da poter parlare sottovoce con Hardesty.
Biggo si avvicinò, desideroso di non perdere neanche una sillaba. Ma si trattava soltanto di frasi dolci.
Quando si accorse d'essere udita Jinny si voltò di scatto. — Oh, per l'amor del cielo, lasciami stare! — gridò. — Sono stanca di avere intorno un guastafeste come te, capace soltanto di dire sciocchezze.
Hardesty applaudì con calore.
— Proprio l'altro giorno — riprese lei — non ha fatto che chiacchierare a proposito di certi p...
Il gomito di Biggo le colpì lo stomaco. Jinny si piegò sul bancone. Hardesty si lasciò scivolare dallo sgabello, minaccioso: — Mi pare venuto il momento di...
Il telefono squillò: — Qualcuno dei signori si chiama Hardesty? — chiese il barista, dall'apparecchio.
Lew parve deciso a terminare ciò che stava dicendo, poi cambiò idea e si diresse al telefono. Biggo scambiò il proprio bicchiere vuoto con quello quasi pieno di Jinny. Appoggiò la testa alla mano e tenne d'occhio la faccia dell'altro che dapprima espresse incomprensione, poi stupore, infine rabbia. Hardesty riappese il ricevitore con malagrazia e guardò torvo Biggo, poi si cacciò in testa il cappello: — Bastardo figlio d'un cane — brontolò, senza eccessivo astio, e uscì. Non aveva degnato Jinny di un'occhiata.
La ragazza era ancora china sul banco. Biggo le batté sulla spalla. — Ehi, bimba: tutto bene?
Lei alzò il capo e lo guardò con occhi cattivi. — Benissimo — fece in tempo a mormorare prima di accasciarsi al suolo.
Biggo le fu subito accanto e la sollevò, aiutato dal barista. — Povera piccola — borbottò, rabbioso: si vergognava di sé. Jinny respirava regolarmente ma era pallida e fredda. Pareva più giovane ed estremamente indifesa.
Il barista propose di chiamare un medico, ma Biggo lo zittì. — Portatele da mangiare: ha fame, ecco cos'ha — spiegò. Sistemò la ragazza in un angolo appartato, le sbottonò il colletto e con il fazzoletto inumidito le bagnò le tempie. Lei aprì gli occhi, ma stentò a riconoscerlo.
— Ho ordinato qualcosa da mangiare — disse l'uomo.
— Grazie. — Jinny richiuse gli occhi. Di sotto le palpebre, le lacrime presero a scorrerle sulle guance. — Perché devi sempre venire a sapere quello che mi riguarda? Io non voglio aver niente a che fare con te.
— Quando hai mangiato l'ultima volta?
— Non so. L'ultimo vero pasto, forse, è stato quello che mi hai offerto tu l'altra sera. Non avevo denaro.
— Il fratello di Zurico non ti ha ripreso, eh? — Biggo aveva già dimenticato d'averla diffidata dal restare in città.
Senza aprire gli occhi Jinny si passò la mano sul viso. Il pianto aveva lavato la cipria, e i segni delle percosse erano evidenti. — Come posso presentarmi da lui, con questa faccia? E sei tu quello che devo ringraziare.
— Non sono stato io a chiederti di drogarmi, bellezza.
— Va bene, va bene. Dov'è Lew? — Si guardò intorno, sgomenta. — Oh Dio, se n'è andato? Hai allontanato anche lui, Biggo?
— È dovuto uscire.
Le spalle di lei ricaddero. — Grazie ancora — sospirò.
— Per che cosa?
— Per nulla, maledizione! Per avermi fatto perdere l'unica occasione che mi si presentava di poter cenare, ecco perché! — Si nascose il viso tra le mani. Quando le riabbassò aveva un'espressione disperata. — Che cosa farò, adesso? — domandò, smarrita.
Portarono il cibo: pietanze messicane acquistate al vicino ristorante. Jinny divorò tutto in fretta, come timorosa che i piatti potessero sparirle sotto gli occhi. Biggo la guardava, fumando. Stava considerando tra sé un'idea.
"Forse ci sono" si disse dopo un po'. — Che cosa farai adesso, tesoro? — le chiese.
— Non so — ammise lei, stanca. — Andrò alla polizia: probabilmente mi rimanderanno negli Stati Uniti. Forse — aggiunse, velenosa — vorranno sapere che cosa intendevi fare con la pistola. Quella nella valigia.
Biggo fece una smorfia. Jinny poteva essere pericolosa. — Che cosa credi volessi farne?
— Be', non so. — La ragazza parve ricordare qualcosa. — Zurico è morto per una revolverata, no?
— E anche Abramo Lincoln. Questo non significa nulla.
— Aspetta un momento. — Corrugò la fronte mentre raccoglieva con il pane le ultime tracce di cibo dal piatto ormai vuoto. — Ho letto che sul suo cadavere c'era una penna di pavone. E quel primo giorno, nel bar, continuavi a parlare di... — I suoi occhi ebbero un lampo di eccitazione. Si raddrizzò sulla seggiola.
Biggo sorrise, amichevole. Le soffiò il fumo in faccia, fissandola. — Benissimo — disse. — Andiamo alla polizia.
Non era difficile ingannare Jinny. Un attimo dopo lei abbassò gli occhi. — Non so — mormorò, in tono vago.
— Che ne diresti d'un impiego? — propose l'uomo. — Un impiego non troppo gravoso: buoni pasti, un bel posto in cui vivere, buona compagnia e splendido panorama.
— Vuoi scherzare, Biggo?
— No.
— Davvero hai delle conoscenze del genere? Cosa devo fare?
— Fingere per qualche giorno d'essere mia moglie.
— Non ci sperare — sibilò lei, tra i denti. — Piuttosto vado alla polizia o continuo a vivere di aperitivi e tartine scroccati.
— Mi hai frainteso. Ti propongo un affare commerciale, niente di più. — Aveva pianificato ogni cosa. Il Rosso, cercava un uomo solo in un albergo di seconda categoria. Biggo sarebbe divenuto un uomo ammogliato, e avrebbe preso alloggio in un albergo di gran lusso. Ricordò qualcosa e aggiunse: — Poi, fra pochi giorni, ti consegnerò il biglietto dell'aereo per Frisco. Mi serve una moglie per passare un breve periodo al Riviera Pacifico.
La faccenda dell'aeroplano parve far presa sulla ragazza. Esitò: — È davvero una semplice proposta d'affari? — chiese. — Non vuoi prenderti gioco di me, Biggo? Di te non mi fido.
Lui sbuffò. — Non ti chiedo di fidarti di me, dolcezza. Sei abbastanza adulta da poterti difendere. — Era sincero. L'attrazione fisica non c'entrava: voleva soltanto servirsi di lei come d'un paravento e, nello stesso tempo, tenerla d'occhio, accertarsi che non chiacchierasse con nessuno. Al momento giusto, poi, la ragazza avrebbe fatto da esca. Lui avrebbe potuto ripararsi dietro le sue spalle, mandarla allo sbaraglio in vece sua.
— Sì — ammise Jinny un attimo dopo. — Posso difendermi.
— E allora?
— Accetterò: non ho molto da scegliere. — Lo fissò, stranamente gelida. — Ma ricordati quel che ti dico, Biggo: accetto solo perché non ho denaro. Se non fosse perché hai promesso di darmi da mangiare non ti starei vicina a nessun patto. Io ritengo di essere la più spregevole creatura della terra, ma tu mi rivolti addirittura lo stomaco. Non so che effetto ti faranno le mie parole, ma sentivo di dovertelo dire.
Biggo sogghignò. — A quanto pare ci avviamo verso una normale esistenza coniugale — osservò, ironico. — Sei pronta, adesso?
11
Venerdì, 15 settembre, ore 15,30
Biggo aveva escogitato uno stratagemma. Lui e Jinny salirono in un taxi, e si fecero condurre nei pressi dell'aeroporto. Qui dissero all'autista di fermarsi e scesero dall'auto. Percorsero a piedi un paio di isolati, poi presero un altro taxi e gli diedero l'indirizzo dell'albergo, in modo da sembrare appena giunti in città.
L'Hotel Riviera Pacifico era un prodotto degli ultimi vent'anni. Originariamente si chiamava La Playa de Ensenada, ed era stato costruito come nucleo d'una seconda Montecarlo. A quanto diceva il guidatore del taxi, per realizzarlo erano stati spesi due milioni di dollari. A quell'epoca l'albergo vero e proprio era soltanto una lussuosa appendice del casinò. Poi c'era stata la crisi e i turisti americani erano rimasti a casa con i loro dollari.
Quando avevano ricominciato ad andare verso il sud, il governo messicano aveva classificato Ensenada città di confine, con relativa proibizione dei giochi d'azzardo.
Così, il Riviera Pacifico era diventato solamente un albergo. — Il casinò è vuoto e sta ad aspettare — concluse l'autista, mesto.
A Biggo quell'enorme palazzo fece effetto: con le sue pareti color crema e le tegole rosse sui tetti, ornati da torri, dimostrava chiaramente di costare molto denaro. Era formato da due grandi blocchi e da una rientranza centrale, come un corpo stretto dal busto. Si ergeva su una piccola altura di fronte alla spiaggia e quasi tutti gli appartamenti e le camere erano nell'ala meridionale.
Le auto allineate nel parcheggio, all'ombra degli alberi, portavano per lo più la targa degli Stati Uniti. C'erano fiori e praticelli erbosi e la brezza marina si mescolava alla fragranza dei pini. Biggo scaricò le valigie e si riempì i polmoni di quell'aria balsamica. Si sentiva opulento.
Anche Jinny scese dal taxi e si guardò intorno. — Mi pento d'essere venuta — mormorò. — Non avrei dovuto.
Biggo sbuffò.
— Che cosa stai guardando? — domandò lei.
— Niente, cara. Sta' tranquilla. — Aveva visto una figura smilza scivolar fuori dal parcheggio e girare l'angolo dell'edificio: un uomo dalla carnagione scura, che indossava un paio di calzoni di tela e reggeva un rastrello. L'individuo somigliava ad Adolfo, il suo ex compagno di progionia, ma Biggo non era ben certo che si trattasse di lui.
— Be' — fece Jinny, stanca d'aspettare — ti piace questo posto? — Aveva riparato i guasti del trucco e i lividi non si vedevano più, ma qualcosa non andava ancora, sul suo volto. — Spero non vorrai accamparti qui davanti.
— Così fanno a Scribner, nel Nebraska? — ritorse Biggo. Pagò l'autista e prese le valigie. — Ora cerca di sorridere. Ricordati che sei mia moglie.
— Se ti pare un buon motivo...
— Spiritosa — fece lui. — Scommetto che a Scribner siete tutti così.
— Smettila di parlare di Scribner — scattò lei, irritata. Lo precedette attraverso la grande entrata posteriore e lungo un corridoio di stile moresco, con le pareti ornate da dipinti. Biggo la seguì, sogghignando.
Scesero qualche gradino per raggiungere il banco del portiere. La grande hall dal soffitto a travi era situata a nord e bisognava scender altri gradini per accedervi. Biggo diede i nomi del signor John S. Biggo e signora, provenienti da Scribner, Nebraska.
— Ah, Nebraska — commentò l'impiegato. Jinny gli rivolse uno sguardo acido.
— Vorremmo una stanza tranquilla a due letti — continuò Biggo, ammiccando. — Siamo in viaggio di nozze, sapete.
La ragazza soffocò in gola un suono strangolato.
— Certamente — disse l'impiegato. — Il Riviera Pacifico è il posto ideale per la luna di miele. Se possiamo far qualcosa perché la permanenza vi sia ancor più gradita...
— Grazie, grazie. Ve lo faremo sapere.
Un ragazzo in uniforme li condusse a una grande stanza d'angolo le cui finestre s'aprivano sul parcheggio alberato. Era un locale ampio e arioso, provvisto di letti gemelli.
Jinny sedette su uno di essi. Quando il ragazzo se ne fu andato, tirò un sospiro di sollievo. — Grazie a Dio, fin qui ci siamo arrivati — osservò. — Perché ti sei sentito in dovere di fare la commedia, giù dabbasso?
— Affari. Lascia che degli affari si preoccupi tuo marito.
— Non sapevo che avrei dovuto impersonare una sposa novella. Se c'è qualcosa a cui non somiglio è proprio una sposa. Avresti dovuto comperarmi un mazzo di fiori, o qualcosa di simile.
Biggo fu sul punto di dire un'altra delle sue frasi pungenti, ma poi notò che la ragazza se ne stava seduta sul letto, rigida e a disagio e si astenne. — Non potevo permettermelo — rispose, e girellò per la stanza esaminando i mobili chiari ed eleganti. Tutto appariva nuovissimo. Toccò le tende e sollevò gli avvolgibili per far entrare più sole. Pensò che alla donna la stanza sarebbe parsa più allegra: forse era imbarazzata dal ruolo che lui le aveva imposto. Jinny sapeva molte cose ma evidentemente non le piaceva fingere.
La lasciò sola per un attimo e andò a vedere se nella stanza accanto c'era qualcuno. Era disabitata. Una donna messicana stava lavando il pavimento e l'armadio spalancato era vuoto. Ne fu soddisfatto: l'albergo non pareva molto frequentato.
Quando tornò nella camera trovò che Jinny s'era alzata e fissava il numero segnato sull'uscio. Al suo apparire, la ragazza si rimise a sedere sul letto e rimase assorta, a tormentare con dita nervose la trapunta. Biggo sospirò, poi prese a fischiettare per alleggerire la tensione. Appese la giacca nell'armadio e lasciò la Bibbia nella tasca.
— Potresti anche disfare la valigia — consigliò, tanto per dir qualcosa, e incominciò a sistemare i propri effetti. Mise il rasoio nel bagno e appese gli abiti, lasciando a Jinny esattamente metà delle grucce. Poi decise di cercare la Beretta automatica, pensando che nel pomeriggio si sarebbe divertito a pulirla. Gli avrebbe fatto piacere e l'avrebbe rassicurato sentirne il peso in tasca, a bilanciare quello della Bibbia; inoltre sarebbe stato anche quello un modo per agire, per non limitarsi semplicemente ad aspettare. Cacciò il resto degli indumenti in un cassetto. Dopo di che, la valigia rimase vuota.
Per un attimo Biggo fissò la fodera, incredulo. Poi si mise a cercare dentro i tasconi. Infine frugò negli abiti che aveva appeso e tra la biancheria, per vedere se inavvertitamente non avesse riposto armi e munizioni con essi.
L'idea si formò in lui a poco a poco, ma alla fine si volse a Jinny. — Dov'è la pistola? — chiese.
Lei non si curò neanche di alzare il capo. — L'ho buttata via.
— Hai fatto cosa?
— L'ho buttata via. Insieme alle munizioni.
— Vuoi scherzare. — Biggo afferrò la valigetta azzurra e ne tolse il contenuto, gettando gli indumenti a terra. — Dov'è? — incalzò. — Andiamo, dammela.
— L'ho buttata via: ho paura delle armi da fuoco. È nell'acqua della baia. — La ragazza lo fissava calma; pareva pensare ad altro. — L'ho gettata in mare: ecco tutto.
— Ecco tutto? — gridò Biggo. Avanzò verso di lei minaccioso. — Ah, così? Hai gettato via la mia bella Beretta?
Lei annuì.
— Ma la valigia e l'orologio li hai tenuti, eh!
— Non volevo che mi trovassero la pistola, alla dogana. Sono tanto fortunata che mi capita sempre di dover scontare quello che non ho commesso. — Jinny sollevò le gambe sul letto e si volse dall'altra parte. — Oh, non parliamone più — sospirò.
Biggo tirò un calcio al mucchietto dei suoi indumenti, che si sparsero sul tappeto. — Niente pistola! — esclamò. — Possono ammazzarmi da un momento all'altro e io non ho niente per difendermi. Ma capisci in che situazione m'hai messo? Come faccio a procurarmene un'altra in un posto come questo? Non mi meraviglio che il jefe non abbia detto niente: la pistola non c'era! Guardami! — Con gesto brusco le girò il viso in modo da poterla fissare. — Ho voglia di cacciarti i denti in gola.
Le labbra di lei tremarono: si gettò a faccia in giù sul letto, singhiozzando.
Biggo la guardava, perplesso. Quella ragazza aveva la caratteristica di riuscire sempre a sconcertarlo. Camminò su e giù per la stanza, nel tentativo di calmarsi, poi radunò con il piede gli abiti di lei. — Ora smettila — bofonchiò infine. — Non ho intenzione di picchiarti.
Lei si rialzò di fianco, appoggiandosi al gomito. Sul cuscino, il volto bagnato di lacrime aveva lasciato una chiazza umida. — E che me ne importa? — scattò. — Cosa ti fa pensare che me ne importi?
Biggo fece uno sforzo per dominarsi. — Non pensiamoci più — disse, sentendosi generoso. — Dopotutto non era che una pistola.
— Oh, al diavolo. — Jinny aveva ripreso a singhiozzare. — Me ne infischio della tua maledetta pistola. Non è per quello che piango.
L'uomo si limitò a fissarla.
— Questa è la stessa stanza: guarda il numero sulla porta — riprese lei.
— Che cosa stai dicendo? O non sai di che cosa parli?
— Parlo di me stessa! — Le lacrime le scorrevano copiose sulle guance rotolando fino agli angoli della bocca. — Eravamo in troppi, alla fattoria. Io ero quella che aveva talento: sapevo cantare. Puoi immaginare che cosa capitò quando andai a Hollywood... Non avevo affatto voce, in realtà. Ho fatto tutti i mestieri: la sguattera, la fattorina, ho lavorato in una fattoria... tutto. — Le parole le uscivano smozzicate, nel pianto convulso. — A volte riuscivo a cantare con qualche orchestrina; stavo seguendo un corso per hostess, quando quell'uomo mi promise un contratto alla televisione. Dovevo venir qui per incontrarmi con certa gente: ma qui non c'era che lui, in questa stessa stanza: s'era preso gioco di me; era come tutti gli altri.
Ricadde sul letto, nascondendo il viso. Biggo emise un brontolio: fece per batterle su una spalla ma Jinny si ritrasse. — Giù le zampe! Non penserai che abbia creduto a tutti i tuoi bei discorsi! Tutti voi avete in mente la stessa cosa!
— T'illudi, cara la mia ragazza! — scattò Biggo. Jinny l'aveva nuovamente mandato in collera: lo irritava che non fosse poi troppo lontana dalla verità. — Smettila di miagolare se non vuoi restartene a Ensenada per il resto della tua vita!
S'infilò la giacca e uscì, sbattendo l'uscio con rabbia.
12
Venerdì, 15 settembre, ore 17
Niente Beretta. Biggo restò seduto al bar dell'albergo fin quasi alle cinque, a rimuginare la cosa. Si chiedeva dove avrebbe potuto trovare un'altra pistola, in una cittadina pacifica come Ensenada, senza che l'acquisto attirasse l'attenzione della polizia.
La perdita della Beretta era gravissima, tragica. Nel pomeriggio, quando era uscito dalla prigione, s'era ritenuto invulnerabile; ora, nella scura sala dalle pareti rivestite di quercia, si sentiva abbattuto, avvilito. Gli sembrava che tutte le sue energie, tutte le sue possibilità venissero meno, a una a una. — Sono come Toevs — si compatì. Cercò di rassicurarsi flettendo i forti tendini del polso: era difficile raggiungere le sue vene, anche con un coltello. Era potente come sempre. — Qualche cosetta da fare ti gioverebbe, caro Biggo — si disse. Raccolse la giacca che aveva posato sullo sgabello vicino e prese a girellare per l'albergo. Attraversò la hall e passò nel patio sperando d'incontrare qualcuno con cui poter litigare; ma non accadde nulla. Deluso, comperò un sigaro allo spaccio e s'avviò verso le scale. Togliendolo dall'involucro, il sigaro gli cadde di mano, e lui si curvò a raccoglierlo, imprecando. Sentì d'essere osservato: guardò in su e abbozzò un goffo inchino.
Alla curva dello scalone c'era Pabla Ybarra, avvolta in una nube di seta azzurra. Una sciarpa vaporosa le copriva le spalle nude. Il sole, entrando da una finestra alle sue spalle, filtrava tra i biondi capelli e la faceva parere una immagine dipinta sul vetro.
Biggo sogghignò: si sentiva di nuovo in forma; ma la ragazza si limitò ad accennare un sorriso, perplessa. Non riusciva a identificarlo. L'uomo prese la giacca, che teneva sul braccio, e la distese a terra: — Per la regina — disse.
Lei corrugò la fronte, come contrariata, e scese rapida la scala, evitando, all'ultimo minuto, di calpestare l'indumento. — Guarda! Il prigioniero! — esclamò. — Il prigioniero religioso!
Biggo raccolse la giacca e batté sulla tasca contenente la Bibbia. — La porto dappertutto — spiegò. — Per questo ho spesso delle apparizioni.
Lei rise. — Non mi attendevo di rivedervi.
— Io invece ho aspettato per ore e ore vicino a questa scala. — Gettò il sigaro e si avvicinò alla bella. Aveva scoperto il motivo per il quale i suoi occhi scuri avevano uno sguardo tanto dolce: la ragazza era miope. Quel fatto, inspiegabilmente, faceva sì che la sentisse più vicina.
A un tratto s'accorse che alle spalle di Pabla sostavano due individui: una specie di guardia del corpo. — Señor Smith — stava dicendo la giovane. — Vi presento la mia governante, Señora Garda e il Señor Emilio Valentin, mio accompagnatore. — Biggo fece un breve inchino a Mamacita, la gelida signora vestita di nero che aveva già veduto, e scambiò un cenno del capo con Valentin, un ometto viscido, dall'aria molto latina, che pareva nato col frac addosso.
Scambiarono qualche parola e Biggo si affrettò a chiarire che il proprio nome era John Smith Biggo. Poi Valentin guardò con ostentazione l'orologio.
Pabla si eresse: — Non c'è fretta, Emilio — dichiarò. — Una volta arrivati dovremo star là un bel pezzo, dunque...
— Ma, Señorita...
— Volete suonarci qualcosa, nel frattempo? — interruppe Pabla, senza dargli la possibilità di protestare.
Si avviarono verso la hall, un locale immenso con lampadari in ferro battuto e lussuosi mobili intagliati, e Valentin accettò il suo esilio al lontano pianoforte a coda. Un minuto dopo Pabla si liberò anche di Mamacita pregandola, in un sussurro, di eseguire una commissione.
Oltre a loro, non c'era nessun altro. La fanciulla indicò un divano antico e Biggo vi sedette accanto a lei, tenendosi con rispetto a una certa distanza.
— Siete stato molto gentile a desiderare di rivedermi, Señor... ah, Biggo — incominciò Pabla. — È strano, però, questo vostro desiderio. Non vi ricordo il passato?
Lui ridacchiò. — Mi ricordate solo che non bisogna mai dubitare della fortuna. Sapete: sono stato in prigione soltanto una notte, per un equivoco. — Voleva che fosse chiara la sua personalità di gentiluomo. — Ma perché non mi chiamate Biggo?
— Avete un nome strano che fa pensare a qualcosa di grosso e di rozzo — disse Pabla, in tono grave. — Invece io vi trovo molto gentile, e mite come un agnello. Spero che questo non vi offenda.
— Oh no. — Nessuna cosa detta da lei poteva offenderlo, ma era un bene che gente come Jinny o Lew Hardesty non lo sentissero definire «mite come un agnello». E a un tratto Biggo stabilì che Pabla non doveva venir a sapere di Jinny, sua «moglie». Non avrebbe potuto spiegarle la cosa: l'innocenza della giovane aveva certo dei limiti, anche se non aveva dubitato che la presenza di lui all'albergo fosse soltanto un tributo al suo fascino.
Ma in quel momento anche Biggo credeva alle proprie bugie. Parlarono di Città del Messico, dove la giovane doveva tornare, al termine delle celebrazioni. Dal pianoforte veniva una musica dolce e discreta e lui godeva nell'ammirare la bellezza di Pabla, nel sentire la sua vicinanza. A un certo momento la vide accavallare le gambe e si trattenne a fatica dal guardargliele ma non poté far a meno di pensare che dovevano essere snelle, dorate e lisce al tatto. La musica e il lieve profumo di lei gli ispiravano un desiderio strano, nuovo, fatto di tenerezza. Seppe che Città del Messico era cambiata negli ultimi vent'anni: ed era incredibile il fatto che lui ci fosse stato prima che Pabla venisse al mondo.
Mamacita tornò, ma si mise in un angolo, in attesa. Valentin di tanto in tanto sogghignava, dal pianoforte. Biggo era al settimo cielo. Abbassò la voce: — So perché avete mandato la vostra governante di sopra — sussurrò.
Pabla scosse la testa. — No, vi sbagliate. — Nel suo sorriso c'era un velo d'ironia. — Vi prego di non credere che io parli con tutti quelli che libero dalla prigione.
— Niente di tutto ciò. — Biggo rise: — Penso che l'abbiate mandata a prendervi gli occhiali.
Pabla trattenne il fiato: — Oh, vi prego, non parlatemene mai più! Non li porto se non quando è indispensabile, e mai in pubblico. Se qualcuna delle mie amiche sapesse.. . — Si rese conto di aver parlato con buffa serietà e scoppiò a ridere.
— Non preoccupatevi: la cosa non sarà risaputa — promise Biggo. Era il loro segreto.
Si guardarono negli occhi. La giovane sostenne lo sguardo di Biggo con tranquillità: evidentemente la sua inesperienza faceva sì che non provasse alcun timore. Si lisciò la gola con una mano, in una sorta di lieve massaggio, ma non appena se ne rese conto, smise: — Un'abitudine nervosa — spiegò. — È un gesto che compio automaticamente prima... — esitò — prima d'ogni crisi.
Biggo non comprendeva.
Poi una mano gli batté sulla nuca. — Biggo! — esclamò una voce. Lew Hardesty lo fissava, sogghignando.
Biggo si sforzò di non dire quello che gli era salito alle labbra.
Lew finse di veder Pabla solo in quel momento: — Oh, mi dispiace! — esclamò. — Non mi sono accorto d'interrompere un colloquio...
La ragazza lo guardò con curiosità. Biggo desiderò che Hardesty non avesse un aspetto tanto giovanile ed elegante, ma dovette rassegnarsi ad alzarsi e a fare le presentazioni.
— Avrei dovuto pensarlo — osservò Lew con voce melata. — Non solo la regina della festa ma anche la principale artista del concerto di stasera.
— Grazie, Señor — e Pabla rivolse a Biggo un sorriso malizioso. — A quanto pare non tutti gli americani di Ensenada ignorano i manifesti.
— Señorita compatitelo — replicò Hardesty. — È un vecchio: i suoi occhi non sono più quelli d'una volta.
Uno scherzo sulla vista non era fatto per piacere a Pabla. Smise subito di punzecchiare Biggo. Si alzò; Valentin e Mamacita si affrettarono a muoversi dalle opposte estremità della hall.
— Oh, voi cantate — disse Biggo. — Ma certo, ho letto i manifesti. — Poi vide che l'oggetto recato da Mamacita era un astuccio per violino.
— A città del Messico godo di una piccola fama — spiegò Pabla — ma qui non ho nessun nome. Vi perdono l'offesa al mio amor proprio.
— Verrò al concerto, stasera. Gli applausi più forti saranno i miei.
— Temo che il teatro sia tutto esaurito. — La fanciulla tese la mano, morbida e calda. — Mi ha fatto piacere rivedervi.
Biggo disse la stessa cosa, con fervore. Fu lieto di vedere che Pabla salutava Hardesty con un freddo cenno del capo. La guardò allontanarsi con incedere regale, scortata dall'anziana signora e dall'accompagnatore.
— Per tutti i diavoli — commentò Hardesty seguendola con gli occhi, ammirato. — Ecco una gallinella con cui il vecchio Lew sarebbe certo di non annoiarsi.
Biggo fu sul punto di costringerlo a tacere. Poi si disse che, in fondo, i pensieri irrispettosi non potevano insudiciare la fanciulla. — Per quale disgrazia sei capitato qui? — bofonchiò.
— Mi piace mescolarmi al gran mondo, di tanto in tanto. Qui si sta meglio che all'albergo per turisti. E tu cosa fai da queste parti?
L'altro decise di dire una parte della verità. — Sono venuto ad abitarci perché pensavo che tu non ci fossi. Lew si toccò la cicatrice sulla guancia, con gesto meccanico. — Perché tutta questa segretezza? — incalzò. — Perché non ti decidi a dirmi che hai bisogno d'aiuto? — Cercava nuovamente di farlo parlare dei suoi affari. Biggo sbuffò.
— Ho appena pagato quindici dollari per la riparazione dell'auto — continuò Hardesty con un sogghigno. — Riconosco che è stato un bello scherzo, ma ora devo cercare di ricambiarti il regalo. Naturalmente, se mi farai partecipare alla faccenda potrò dimenticare tutto.
— Ti conviene dimenticartene subito. Ciao, Lew — e Biggo tornò allo spaccio, a comperarsi un altro sigaro. Ma l'uomo lo seguì. — Di' un po' — chiese — cos'è accaduto di quell'altra ragazza? Quel tipetto piccante?
— Forse mi hai scambiato per sua madre. Che cosa vuoi che ne sappia? — Dopo averci pensato sopra Biggo aggiunse: — Perché non vai a cercarla?
— Una vale l'altra. E poi devo andare a cambiarmi per assistere al concerto di stasera.
Biggo rise. — Non potrai entrare. I biglietti sono tutti venduti.
— Certo che sono venduti. Ne ho comperato uno ieri, tanto per liberarmi d'un ragazzetto che li vendeva, al bar. — Hardesty frugò nel taschino del gilé e mostrò ammiccando il tagliandino. — Terza fila, al centro. Potrò ammirarmela con comodo.
— Buon divertimento — masticò Biggo. Sperava che il dispetto non gli si leggesse in faccia. Sentiva che quel posto gli spettava di diritto, ma non intendeva chiedere ad Hardesty di cedergli il prezioso biglietto.
Lew pronunciò qualche altra spiritosaggine, ma non ricevette risposta e finì con l'andarsene.
Biggo tornò nella hall. Si sentiva solo, e sedette sul divano antico al posto che Pabla aveva occupato. Gli pareva che vi fosse rimasto qualcosa di lei, così non accese il sigaro. Appoggiò il capo alla spalliera e immaginò che la mano della ragazza toccasse ancora il suo braccio.
A un tratto pensò a ciò che stava facendo: si rese conto di non essere stato infatuato a quel punto di una persona sin da quando... da quando? Forse dall'epoca in cui aveva l'età di Pabla.